lunedì 24 novembre 2014
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Sofisticato, elegante, talmente impeccabile da sembrare quasi altero. Con “il dono di una voce d’oro”, fonda, attinta a profondità che restano inesplorate. L’età – 80 anni, compiuti lo scorso 21 settembre - non ha fiaccato la resistenza di Leonard Cohen, né reso meno sfuggente il mistero che da sempre avvolge le sue mille “reincarnazioni”: poeta, romanziere, asceta, talmudista, monaco zen e soprattutto – finalmente, felicemente – cantautore. Di Cohen, che ha dato recentemente alle stampe il suo tredicesimo album in studio Popular problems, è in uscita una nuova edizione “celebrativa” del Live in Dublin. Mentre il libro Hallelujah (Arcana), scritto dal giornalista Roberto Caselli, offre una mappa “ragionata” per orientarsi nel labirinto poetico dell’artista canadese. Ecco la “mappa” dei dieci capolavori imprescindibili di Leonard Cohen.Suzanne

Tutto inizia da qui, da Songs of Leonard Cohen (1967). Eterea, delicata, elegiaca, sfuggente Suzanne è il biglietto d’ingresso del poeta canadese nel mondo della canzone. Una manciata di anni più tardi (1974), Fabrizio De Andrè la farà conoscere in Italia: “E Gesù fu marinaio/ finché camminò sull’acqua/ e restò per molto tempo/ a guardare solitario/ dalla sua torre di legno /e poi quando fu sicuro/ che soltanto agli annegati/ fosse dato di vederlo/ disse: “Siate marinai/ finché il mare vi libererà”/ E lui stesso fu spezzato /ma più umano, abbandonato,/nella nostra mente lui non naufragò”. “Per me – ha detto una volta Cohen – la religione non è gerarchia ma rivelazione”.

 

Hallelujah

Un “re confuso”, mezzo Davide mezzo Sansone, la bellezza e il raggiro, l’amore e il tradimento. Un Cohen mai così inspirato ci consegna il fondo limaccioso della grazia, il limite contro cui urta l’esistenza dell’uomo, l’alleluia che per quanto elevi ad altezze meravigliose rimane “freddo e balbettante”. “Per scrivere questa canzone – ha confessato il cantautore canadese - ci ho messo quattro anni, credo di avere composto qualcosa come ottanta strofe per potere alla fine sceglierne quattro”.

 

Amen

L’Amen di Cohen non è mai pacificato, ribolle e si rivolta – come quello di Giobbe – di fronte alle ferite inferte alla giustizia. La sua preghiera prende in molti casi la forma del riv, della contesa, della lotta con Dio che da Abramo fino a Giobbe “percorre come un filo rosso tutto il giudaismo” (Paolo De Benedetti).

 

Anthem

Non solo orrore, non solo buio. L’apocalisse su cui tante volte Cohen indugia riesce a sciogliersi, come nei celebri versi di Anthem: “Ogni cosa ha la sua fessura/ è così che entra la luce”. “C’è una crepa – ha spiegato Cohen – in ogni cosa che può mettere insieme oggetti fisici, oggetti materiali, costruzioni di qualsiasi tipo. Ma è proprio lì che la luce entra e permette la resurrezione, è lì che nasce il confronto con le cose che si rompono e il pentimento”.

 

Bird on the wire

“Come un uccello sul filo, come un ubriaco in un coro di mezzanotte, ho provato a modo mio ad essere libero// Come un verme su un amo/ come un cavaliere di qualche libro antiquato/ ho provato a modo mio ad essere libero”. Dai Fairport Convention a Joe Cocker, dai The Neville Brothers e Tim Hardin, passando per K.D. Lang e Johnny Cash: tanti gli artisti che non sono riusciti a sfuggire al fascino del brano, interpretandolo ognuno a proprio modo. “Questa canzone è al tempo stesso un inno e una preghiera, una versione un po’ bohemien di My Way”, ha detto una volta Cohen.

I’m your man

L’amore e le sue maschere. Il terreno più scivoloso per ogni autore che voglia cimentarsi con il “tema” per eccellenza, perché quello a più alto rischio di banalità. Dylan ad esempio – con cui Cohen intreccia una amicizia/sfida a distanza - è maestro nel cantare il dis-amore - Cohen aggira l’ostacola con grande classe. L’eros e i suoi mascheramenti: l’io narrante del brano si improvvisa pugile, dottore, amante, padre. “Per tutta la vita mi sono chiesto – ha confessato Cohen - cosa volessero le donne, ora ho smesso di chiedermelo”. 

 

Love itself

“Questa canzone – scrive Roberto Caselli – è un viaggio mistico alla corte di Dio, dove tutto è amore e tutto viene creato”. “In correnti di luce – canta sommesso Cohen - vidi chiaramente/ la polvere che raramente si vede/ dalla quale il Senza Nome crea/ un Nome per uno come me”.

 

The land of plenty

L’incedere è maestoso e misurato allo stesso tempo, cosa di cui Cohen è maestro. E questa volta la luce filtra come da mille fessure lungo tutto il brano. Questa canzone, hanno scritto Brunetto Salvarani e Odoardo Semellini in Il vangelo secondo Leonard Cohen. Il lungo esilio di un canadese errante, rappresenta “un’autentica, commossa, dolorosa preghiera. Non sfugga il riferimento a una delle definizione più usate per indicare nella Bibbia la terra stillante latte e miele promessa da Dio a Abramo, Isacco e Giacobbe: la terra dell’abbondanza appunto”.

 

Tower of song

Una delicata, sofferta, testimonianza sul significato della vecchiaia, della perdita, della sopravvivenza, della morte. “Ti dico addio, non so quando tornerò/ ci trasferiranno domani in quella torre in fondo alla strada/ ma mi sentirai ancora piccola/ molto dopo che me ne sarò andato/ ti parlerò dolcemente da una finestra/ nella Torre della canzone”.

 

If it be your Will

Ancora un dialogo, ancora un ponte gettato tra l’umano e il divino. Ma a cadere, in questo brano, è anche il confine tra canto e poesia, con la voce di Cohen che sa farsi sussurro. C’è in If it be your Will  l’interrogazione e l’attesa, il silenzio e il tremore, la voce e la preghiera. “Se questo è il tuo volere/ che una voce sia vera/ da queste colline di dolore/ io canterò per te// Da queste colline di dolore le lodi a te risuoneranno/ se questo è il tuo volere di lasciarmi cantare”. 

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