venerdì 8 luglio 2022
La megainstallazione di Palazzo Ducale tocca la grande questione della fine di tutto e della possibilità di resistere all’annientamento. Ma ormai da due decenni l’artista soffre di gigantismo
Un particolare dell’installazione pittorica di Anselm Kiefer “Questi scritti, quando verranno bruciati, daranno finalmente un po’ di luce” nel Palazzo Ducale a Venezia

Un particolare dell’installazione pittorica di Anselm Kiefer “Questi scritti, quando verranno bruciati, daranno finalmente un po’ di luce” nel Palazzo Ducale a Venezia - G.Poncet

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Trattandosi del pittore-filosofo più noto al mondo, una sorta di alchimista della parola-materia che viene sublimata nel colore e dalla sua precipitazione simbolica fa venire alla luce l’oro che si cela nella parte più oscura del nostro essere corpo, del nostro essere corpo e mondo al tempo stesso; avendo a che fare con un sacerdote della creazione artistica come Kiefer il rischio è sempre lo stesso, già da parecchi anni a questa parte: la bulimia della parola scritta, l’eccedenza verbale sua e della critica che enfatizza ciò che invece dovrebbe raffreddarsi per poter vedere se la grande trasformazione si è manifestata. A dicembre dello scorso anno, dieci giorni prima di Natale, Anselm Kiefer allestì una delle sue ormai consuete grandi operazioni pittoriche rendendo omaggio al poeta con cui sembra condividere molte affinità elettive: parlo di Paul Antschel, noto come Paul Celan, che portava su di sé le stigmate dell’apolide: rumeno d’origine, naturalizzato francese, di cultura ebraica e lingua tedesca, Celan pose fine alla sua vita nella notte tra il 19 e il 20 aprile 1970 gettandosi dal Port Mirabeau di Parigi, bruciando tutti i dolori che lo assediavano a causa dell’Olocausto (ma anche, credo, per la sua posizione di ebreo che aveva vissuto con slancio la propria assimilazione alla cultura tedesca e si ritrovò a recitare il canto di morte nella celebre poesia intitolata Todesfuge). Lascerò da parte il discorso su cosa leghi Kiefer e Celan, dalla “questione della colpa” alla ricerca sulla cabbala e la mistica ebraica che il pittore fece emergere nel 2004 all’HangarBicocca con grande forza nell’installazione dei Sette palazzi celesti . Mi limito qui a notare che anche la mostra allestita per poco più di un mese al Grand Palais Éphémère – il padiglione situato in Champ-de-Mars a Parigi che supplisce alla chiusura della struttura da cui prende il nome sottoposta a restauri e ristrutturazioni – seguiva un protocollo di comunicazione che si riproduce ora a Venezia: anche qualche mese fa il catalogo della mostra si apriva con la pubblicazione di alcune pagine dal diario di lavoro di Kiefer, cui seguivano vari testi critici. Così, grosso modo, accade a Venezia, dove la curatrice Gabriella Belli ha voluto allestire a Palazzo Ducale una mostra di Kiefer (fino al 29 ottobre), dopo aver ricordato l’impressionante sequenza di eventi destabilizzanti cui siamo stati esposti negli ultimi tre anni: l’acqua granda che ha alluvionato molti musei veneziani, il lockdown imposto dal governo a causa del Coronavirus e, ora, la guerra («mai così vicina» scrive la Belli, ma la guerra in Bosnia lo fu eccome). Dunque, anche a Venezia il catalogo edito da Marsilio-Arte soffre di bulimia saggistica, una eccedenza persino più ampia di Parigi: oltre al testo della Belli e alla “lettera” di Kiefer che spiega le ragioni dell’intervento, seguono altre sei letture critiche, più apparati. Ogni volta si fatica a credere alla logorrea che questo pittore suscita nei critici. Il che fa specie considerando come lo stesso Kiefer parli spesso di negazione, di nulla, di senso metafisico della fine, e lo faccia – altra analogia con Parigi – a partire dall’ennesimo convitato di pietra: là Celan, qua Andrea Emo, filosofo, con qualche sconfinamento nel cristianesimo – Kiefer rileva, per esempio, che per Emo la rivelazione di Cristo è la Croce, che in sé sarebbe già inizio della Risurrezione, e paragona questo pensiero allo TzimTsum ebraico, sorta di “contrazione” o “autolimitazione” di Dio che si ritrae per lasciar spazio all’azione creatrice dell’uomo. Alla fine della sua introduzione Gabriella Belli si chiede «quanti lasceranno con disappunto la sala e quanti s’immergeranno in queste rovine?». Per esperienza diretta, due mesi fa quando ho fatto visita alla macchina pittorica di Kiefer – che ricopre il salone dello Scrutinio, dove si trovano le opere di Andrea Vicentino, Tintoretto, Palma il Giovane e altri, luogo che nel XV secolo accolse la biblioteca del grande Bessarione e in seguito servì come sede dove si eleggeva il Doge –, ecco, fra le decine, forse ben oltre il centinaio di persone che affollavano lo spazio non ho registrato né disappunto né reazioni attonite o preoccupate: non scrisse forse qualcuno che il Giudizio Universale del Tintoretto, che andò bruciato nel 1577, «atterriva gli animi»? Niente di tutto questo nella “caverna” pittorica di Kiefer, anzi un senso di pesantezza, non dell’animo ma del corpo, schiacciato dal gigantismo dell’artista tedesco. Ma se parliamo di rovine, la coscienza che tutto finirà, il mondo e con esso ciò che contiene, incluse le opere d’arte – era un pensiero senile di un gigante come Michelangelo –, ecco io mi sono fatto l’idea, e so bene quanto possa essere irritante per gli amanti dell’opera di Kiefer, che egli sia oggi una specie di Meissonier della pittura informale ed espressionista tedesca, che somma in se tutto, realtà, oggetto e simbolo, paesaggio e architettura, luce e tenebre, forma e distruzione, idea, colore e materia. Una sorta di pittore ufficiale, portavoce di una contemporaneità che usa l’angoscia come propulsore, e così l’artista gira il mondo allestendo quadri di un’apocalisse annunciata. La sua immagine delle rovine mi fa pensare al quadro Les Ruines du palais des Tuileries, che il pittore di Napoleone III dipinse nell’anno in cui si consumò la guerra civile fra i parigini fedeli all’Imperatore e la Comune. Sullo sfondo, dietro le macerie, si vede l’Arco di Trionfo alla cui sommità sta la la quadriga di Bosio, una copia di quella che fiera s’innalza sopra San Marco a Venezia: intitolata La Restauration guidée par la Paix venne installata nel 1828 per celebrare il ritorno in sella del potere monarchico. Ai piedi delle macerie il pittore ha posto una lapide con l’iscrizione latina: Gloria Maiorum per flammas usque superstes, Maius MDCCCLXXI. La gloria degli antenati arde ancora nonostante le rovine (1871). Non alla storia o al potere di turno rende omaggio Kiefer: oggi sembrerebbe stucchevole ogni artista che celebrasse istituzioni che sono lontanissime dai popoli; non era forse un pensiero di Gabriella Belli, quando ha voluto questa mostra, che occorresse far vedere come si possa «riformulare un concetto d’arte pubblica nelle istanze del nostro tempo» ovvero «pittura come strumento per la collettività»? Fa questo Kiefer? Parla alla collettività? Oppure parla a un pubblico che è fatto, anche a Venezia, per lo più di turisti? Nella lettera a Gabriella Belli egli confessa il piacere con cui passeggiò a Venezia durante il lockdown, una Venezia vuota, scrive, come «simultaneità di qualcosa e del nulla». Il che, se non altro, dice quanto il turismo, anche quello che oggi eventualmente omaggia Kiefer, sia una velenosa aberrazione del vivere civile. Il pittore afferma nella sua poetica dell’annientazione – confessando di mettere le sue opere alla prova delle intemperie o al limite aggredendole con un gesto distruttivo – , che non c’è niente di eterno sotto il sole, che non c’è niente di nuovo, così Ecclesiaste ed esistenzialismo si stringono la mano nell’idea che solo la negazione resiste, ovvero, come sostiene Emo, l’essere e il nulla si toccano. Da qui viene il motto sotto cui Kiefer ha posto la sua fatica: «Questi scritti, quando verranno bruciati, daranno finalmente un po’ di luce», che mi pare, nella sua volontà antifrastica, un pensierino consolatorio non dei più paradossali. Kiefer parla di negazione, in realtà mentre nega afferma con la sua pittura. A un certo punto, arriva a dire che potrebbe «buttare tutti i quadri nella Laguna dopo la mostra e attendere cosa ci riserva il futuro». Vedremo se lo farà, in fondo le sue opere valgono milioni: morte (del mercato) a Venezia? L’artista spiega nella lettera a Gabriella Belli i rimandi simbolici di alcuni segni-oggetti presenti sui grandissimi teleri: la bara vuota e il corpo di san Marco, la scala e Giacobbe, il sommergibile e la flotta navale veneziana, l’emergere della terra come rimando all’opera dei veneziani costruttori che strapparono spazio al mare. Eppure, mi sembra che siamo sempre nell’ordine delle sovrastrutture. Come se quella caverna dell’origine, con le sue pareti che sembrano incombere su di noi, avesse bisogno di un motivo per cancellare il passato che gli preesiste. Forse bisognerebbe avere il coraggio di dire che questa gigantesca operazione pittorica soccombe sotto il peso espressivo dell’unico grande modello con cui Kiefer ingaggia una lotta muscolare, a mio parere perdendola: Tintoretto. Non soltanto la Scuola Grande di San Rocco, ma tutto Tintoretto. Considerato che Kiefer è una star dell’arte contemporanea, sarà coraggio o autodafé nel proprio talento?

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