sabato 11 gennaio 2014
COMMENTA E CONDIVIDI
Si possono seguire le “orme tacchettate” di un inglese del football come se fossero le tracce dei connazionali di genio del calibro di Shakespeare o Britten? La risposta, perdendosi nell’affascinante lettura della biografia William Garbutt (Castelvecchi) di Paul Edgerton, è assolutamente «yes». Edgerton, docente di inglese in Italia, dopo aver scoperto la storia di Garbutt in Calcio. History of Italian Football del prezioso storico dello sport John Foot, ha trascinato anche il figlio Tom alla scoperta di quello che nel sottotitolo della biografia viene giustamente annoverato come «il padre del calcio italiano».William Thomas Garbutt, classe 1883 – figlio di un falegname di Stockport, suburbia di Manchester –, ex ala destra di Reading, Woolwich Arsenal e Blackburn, nel 1911 fece il suo debutto con la nazionale dei Tre Leoni e in quello stesso anno (ultima apparizione contro il Notts County, il club che fornì le casacche bianconere alla Juventus), complice un infortunio, appese precocemente gli scarpini al chiodo per intraprendere la carriera di allenatore.A 29 anni approdò «nella soleggiata costa genovese» per guidare la prima società calcistica fondata in Italia (nel 1893 e naturalmente dagli inglesi: nel Regno Unito si giocava al football già dal 1863, primo storico match di Sheffield), il Genoa Cricket and Athletic Club. Più cricket che calcio, fino al 1896, quando al porto di Genova per curare i marinai della flotta reale sbarcò il dottor James Richardson Spensley, il quale alla domenica riponeva il camice di medico per diventare il “jolly” della squadra rossoblù con cui vinse 6 scudetti. Pochi giorni dopo il naufragio del Titanic e mentre le truppe italiane invadevano la Libia, al Genoa si presentò quello che da lì a poco i giocatori e e i tifosi del glorioso Grifone avrebbero chiamato semplicemente il “Mister”.Garbutt importò nel nostro calcio la rivoluzionaria metodologia britannica – preparazione fisica, esercitazione sui fondamentali, esercizi con o senza pallone e perfino le docce “calde” nello spogliatoio –, ma soprattutto una concezione del tutto ignota al sistema italico: il professionismo. Per aggirare le rigide normative federali che all’epoca non ammettevano stipendi per i calciatori e tanto meno per gli allenatori – pena la squalifica fino a due anni –, il Genoa trovò l’escamotage con un accordo di consulenza in cui il Mister figurava come «manager». Termine con cui ancora oggi nella britannica Premier League vengono riconosciuti Mourinho e colleghi.Fin dagli albori, un tecnico di stampo british come Garbutt, oltre a curare e seguire in prima persona gli allenamenti della squadra, si occupava anche di “calciomercato”. Il primo acquisto da lui ottenuto fu quello del forte milanista Renzo De Vecchi, «il figlio di Dio», che però non poteva essere remunerato per le sue prestazioni in campo e quindi venne assunto in qualità di impiegato di banca, quale era: trasferito dallo sportello di Milano alla Commerciale di Genova. Con il suo «faro» De Vecchi (sarebbe rimasto al Genoa per 17 stagioni), il Mister cominciò ad illuminare gli stadi della Penisola. Ma il primo titolo, conquistato nell’anno horribilis 1915, fu amaro: a causa della guerra vennero sospese le restanti partite di campionato e fu uno scudetto a metà per Garbutt, che si vide costretto a tornare in Inghilterra, assieme alla moglie Anna e al figlio Stuart, per rispondere alla chiamata alle armi della Royal Field Artillery.Scampato alle trincee de la Somme in Francia, nel 1918 riuscì a tornare sano e salvo in patria, dove però lo raggiunse la notizia che il dottor Spensley era stato ucciso mentre tentava di soccorrere il nemico tedesco. Anche alcuni dei suoi ragazzi del Genoa erano caduti nella Grande Guerra: i nomi di Luigi Ferraris e Carlo Marassi (ai quali è stato cointitolato lo stadio genovese), Adolfo Gnecco, Claudio Casanova e Alberto Sassone, rimarranno per sempre delle croci piantate nel cuore sensibilissimo di questo autentico gentleman prestato al pallone.Perciò non stupisce che, quando nel 1919 il Mister rimise piede a Genova, venne accolto dal popolo «come fosse uno di loro». Fu un padre per il giovane Giovanni De Prà entrato nel Genoa nel 1921 (in rossoblù fino al 1933), il leggendario «portierone» che cominciò in oratorio – con il futuro cardinale Giuseppe Siri – e non si piegò mai davanti a Benito Mussolini, pagando per questo con l’ostracismo dalla Nazionale. Il Duce peraltro e Pio XI ricevettero il Genoa campione d’Italia nella stagione 1922-’23, cui seguì il bis tricolore. In mezzo, un’epica tournée in Sudamerica: da Rio de Janeiro a Montevideo, passando per Buenos Aires dove si disputò l’incontro più che amichevole con i «cugini Xeneizes», i genovesi del Boca Juniors.La fama dello stratega britannico fece il giro del mondo e il tenente degli alpini, nonché ct della Nazionale Vittorio Pozzo, che ne conosceva da tempo le doti umane oltre che sportive, gli chiese di fargli da aiutante in vista delle Olimpiadi di Parigi del 1924. Garbutt era diventato un idolo per gli amanti del calcio, quanto inviso – come tutti gli inglesi residenti su suolo italiano – ai gerarchi del regime fascista. Continuò ad allenare e con successo la “neonata” Roma, con cui vinse la Coppa Coni (antesignana della Coppa Italia), e il Napoli, poi decise di fare la sua «campagna di Spagna» portando al trionfo la formazione indipendentista dell’Athletic Bilbao.Ma la nostalgia del Belpaese che condivideva, come tutto, con la sua amata Anna, lo convinse a rispondere alla chiamata del Milan e nel 1937 a tentare per l’ultima volta di risollevare le sorti dell’adorato Genoa. Allo scoppio della Seconda Guerra subì l’arresto e il confino e il 13 maggio 1944 una bomba aerea americana per errore uccise Anna, che sotto false spoglie venne sepolta al cimitero Piratello di Imola. La perdita della moglie fu la più grande sconfitta del Mister. Da idolo delle folle, negli ultimi anni Garbutt si chiuse nel silenzio solitario della modesta dimora di Warwick, ripensando all’Italia, al mare di Genova e al nostro calcio. Ma soprattutto ad Anna, alla tomba della quale riuscì ad aggiungere il vero cognome – Stewart. Al triplice fischio della sua esistenza esemplare (si è spento il 16 febbraio 1964), le ceneri del Mister vennero sparse in un’aiuola di rose chiamata «Il posto degli innamorati».
© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI

ARGOMENTI: