sabato 8 agosto 2020
Nel suo saggio, dedicato alla storia del femminismo britannico, la studiosa di Cambridge Helen McCarthy racconta le conquiste delle donne in un mondo costruito per gli uomini.
Operaie riempiono esplosivi nella fabbrica governativa di Chilwell nel 1917

Operaie riempiono esplosivi nella fabbrica governativa di Chilwell nel 1917 - Imperial War Museums

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"Le madri lavoratrici disturbano l’ordine naturale della società e minano i diritti degli uomini". Quando, nel 1844, il deputato conservatore britannico Lord Ashley pronunciò queste parole, nel corso di un dibattito parlamentare a Westminster, nessuno dei suoi colleghi si stupì, né ebbe motivo di indignarsi.

L’affermazione di Ashley rifletteva alla perfezione l’ideale vittoriano che considerava il lavoro femminile causa di ignoranza e povertà. Le donne lavoratrici erano ritenute responsabili del declino morale della nazione, dell’ozio maschile e persino dell’alto tasso di mortalità infantile. La maternità era, al contrario, considerata un servizio allo Stato e un dovere civico nei confronti dell’Impero. Al punto che per circa un secolo – almeno fino al secondo dopoguerra – legislatori, sindacalisti e imprenditori hanno voluto far credere che le “donne in casa” rappresentassero un puntello imprescindibile per garantire situazioni abitative dignitose e le migliori condizioni per la crescita dei figli.

La ribellione femminile, che sarebbe esplosa di lì a poco, con il movimento delle suffragette, non si limitò a promuovere iniziative di protesta eclatanti ma cercò anche di sfruttare al meglio il crescente desiderio di stabilità familiare. Sostenendo, ad esempio, che le case delle donne lavoratrici erano meglio curate di quelle delle casalinghe prive di mezzi economici. Gli ultimi decenni del XIX secolo avrebbero visto l’inizio del lungo e tortuoso percorso verso l’emancipazione femminile nel mondo del lavoro.

Una storia dalle mille sfumature, segnata da interessi e valori spesso in aperto conflitto tra loro, che è ripercorsa con un approfondito sguardo retrospettivo dalla studiosa di Cambridge Helen McCarthy nel suo saggio "Double Lives. A History of Working Motherhood", appena uscito in lingua inglese.

"Ancora oggi la posizione di una madre che lavora è carica di un complesso intreccio psicologico fatto di amore e ambizione, senso di colpa e necessità di realizzazione personale", riconosce McCarthy. La sua è una narrazione appassionata, incentrata sui sentimenti e i desideri delle madri, che inizia alla metà del XIX secolo e assume quasi i connotati del racconto epico.

"I cambiamenti sociali ed economici, rispetto all’era vittoriana, sono stati stupefacenti e adesso il desiderio di una madre di acquisire una propria indipendenza economica è considerata legittima da chiunque nel mondo occidentale, eppure – spiega McCarthy – nonostante gli enormi progressi sociali, le donne lavoratrici risultano in gran parte ancora sottopagate, o pagate meno degli uomini, hanno spesso orari assai poco flessibili e non possono usufruire di servizi per l’infanzia".

Secondo la studiosa britannica a segnare il primo decisivo spartiacque storico sono stati i due conflitti mondiali. Già durante la Grande guerra la forza-lavoro femminile cominciò a crescere a dismisura. Molte madri furono costrette a uscire dalle mura domestiche, vennero impiegate in attività di assistenza sociale e infermieristica ma poi sostituirono anche gli uomini nelle fabbriche e nelle manifatture. Per la prima volta furono ben accolte in quei luoghi e vennero persino celebrate pubblicamente per i servizi resi alla nazione.

Il nuovo scenario ideologico che la guerra creò per le madri lavoratrici attenuò gradualmente l’ostilità sociale nei loro confronti. La tendenza si consolidò poi dopo la Seconda guerra mondiale quando, anche grazie al boom economico, un secondo introito familiare iniziò a diventare un motivo d’orgoglio, oltre che una fonte di benessere funzionale alla crescita della società consumistica.

"Ci si rese conto, per la prima volta, che esisteva una generazione di giovani donne disposte a lavorare per potersi permettere una vacanza, un frigorifero nuovo oppure la televisione", spiega McCarthy, "Ma quelle stesse donne iniziarono anche a manifestare una chiara soddisfazione per la vita indipendente". All’interno delle loro “doppie vite” – come le definisce il titolo del libro – quelle donne capirono di essere capaci di poter finalmente incastrare il lavoro, la cura dei figli e della casa.

"Ma dovettero scontrarsi con il conformismo degli anni ’50, che tentò in ogni modo di relegarle di nuovo in casa", prosegue la studiosa. "Alcune teorie psicanalitiche, assai in voga in quegli anni, a cominciare da quella della “deprivazione materna”, tipica di studiosi come John Bowlby e Donald Winnicott, contribuirono ad alimentare i sensi di colpa nelle madri lavoratrici e tenere vivo lo stigma nei loro confronti. Quelle stesse teorie si sarebbero poi tradotte in politiche sociali e per l’impiego pensate quasi esclusivamente in favore degli uomini". McCarthy cita Merlyn Rees, il ministro del lavoro britannico che, nel 1978, si batté per limitare i finanziamenti statali agli asili nido, espressamente "per non facilitare troppo l’accesso delle donne al lavoro".

E poi le note riforme economiche di Margaret Thatcher, che di lì a poco avrebbero inferto un altro colpo mortale a lavoro femminile: "circa il settanta per cento degli impieghi tagliati in quegli anni nel settore pubblico interessò proprio le donne, le quali hanno però sempre stretto i denti, anche perché la società stava cambiando velocemente, talvolta persino all’insaputa della politica, prendendo direzioni raccontate da certa letteratura di massa".

Negli anni ’70 ebbe grande successo in Gran Bretagna il libro "Superwoman", in cui la famosa divulgatrice Shirley Conran spiegò che "la vita è troppo breve per perder tempo a farcire funghi", e che le donne dovevano avere la libertà di godersi la vita. All’inizio del 2000 fu poi la volta del best-seller di Allison Pearson, "Ma come fa a far tutto?", esilarante storia di una trentacinquenne in carriera costretta a destreggiarsi tra appuntamenti di lavoro e impegni familiari.

Nell’ultimo capitolo del libro Mc-Carthy dà conto, infine, dei recenti progressi, in termini di legislazione sul lavoro, lotte salariali e politiche antidiscriminatorie. "Per gran parte degli ultimi due secoli l’universo femminile è stato limitato da un mercato del lavoro incentrato sulle differenze sociali, da uno stato sociale che ha istituzionalizzato la dipendenza delle donne e da una cultura che premiava le madri devote come l’apoteosi della femminilità", conclude la studiosa di Cambridge. "Ciò che trovo sorprendente non è che le madri abbiano accettato così a lungo un status subalterno sui luoghi di lavoro, ma che siano riuscite ad abbatterlo quasi completamente".

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