sabato 9 luglio 2022
La vittoria dell’americano segnò uno spartiacque simbolico. Tanto che si intromisero pure Brežnev e Kissinger
La “sfida del secolo” tra Boris Spasskij e Bobby Fischer, disputata a Reykjavík tra l’11 luglio e il 3 settembre 1972

La “sfida del secolo” tra Boris Spasskij e Bobby Fischer, disputata a Reykjavík tra l’11 luglio e il 3 settembre 1972 - archivio

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A luglio di cinquant’anni fa a Reykjavík, capitale dell’Islanda, si disputava la più celebre di tutte le partite del campionato del mondo di scacchi. Iniziò ufficialmente l’11 luglio, alle cinque del pomeriggio in una sala dello Sportstadion, davanti a circa 2.500 persone (anche se in realtà tutto ciò che girava attorno al match era iniziato tempo prima), e si concluse dopo otto settimane e ventuno partite, il 1° settembre del 1972. Ad affrontarsi, da una parte Boris Spasskij e dall’altra Bobby Fischer, il russo e l’americano, che si avvicendarono nel titolo. Spasskij era stato campione dal 1969 fino ad allora, mentre Fischer mantenne il titolo poi fino al 1975, prima del dominio di Karpov. «Gli scacchi – disse Kasparov – sono una delle poche arti in cui la composizione si realizza contemporaneamente alla performance», ed è questa una delle ragioni per cui questo anniversario ha così valore: l’altra è il contesto in cui si disputò la sfida. Due uomini diversi, due scacchisti diversi, due filosofie opposte, due storie e due Paesi d’origine distanti. Fischer era un autodidatta, un talento naturale ossessionato dagli scacchi; Spasskij era un prodotto della scuola scacchistica sovietica, di un certo ambiente, in quegli anni amplificato dalla grande storia, poiché oltre alla sfida sulla scacchiera, a caratterizzare quel tempo era proprio l’antagonismo tra Stati Uniti e Unione Sovietica con la Guerra Fredda. Nella seconda metà degli anni Sessanta la tensione si riduceva gradualmente, fino alla ratifica nel 1972 di un accordo per il controllo della crescita degli armamenti, ma un periodo di crisi economica e politica degli Stati Uniti, l’interventismo sovietico in alcune crisi regionali e alcune contraddizioni in politica estera, aprirono a una seconda Guerra Fredda. Ovviamente la questione ha molte più sfumature e complessità, proprio come una partita di scacchi, in cui ogni mossa rappresenta un insieme di tattica, strategia, psicologia. «Gli scacchi – scrive Ivano Porpora in Un re non muore (Utet) – non sono solo un gioco di pezzi, ma di territorio». Mario Monticelli, che fu un grande scacchista e giornalista, raccontava di Fischer come euforico e baldanzoso, di Spasskij come pieno di ritegno e prudenza. Due personalità contrapposte, uno insicuro e l’altro aggressivo. «Per tutta la vita – scrive Reuben Fine ne La psicologia del giocatore di scacchi (Adelphi) – Fischer è stato il peggior nemico di sé stesso». Ebbe un’infanzia infelice, tutta la sua vita convergeva solo sugli scacchi, «il suo unico mezzo per mettersi in contatto con i suoi simili, e tuttavia, battendoli, egli distrugge il contatto». Spasskij nacque a Leningrado nel 1937. Imparò a giocare a 5 anni e a 19 fu annoverato tra i primi dieci giocatori al mondo. Tuttavia, rimase modesto. «Da alcune interviste – scrive Fine – si può vedere quanto differisca psicologicamente da Fischer: in una di esse ha posto l’accento sulla scarsità del proprio spirito combattivo; in un’altra occasione ha rivelato che la sua calma superficiale in realtà nasconde un vulcano interno, in un’altra ha detto che, una volta battuto, riprendersi gli costa un grande sforzo'. Con Fischer fu sconfitta. Dopo 40 mosse, nell’ultimo match, la partita venne sospesa e rinviata all’indomani. Spasskij mise in busta la sua mossa. Il giorno dopo telefonò all’arbitro e disse di abbandonare, sapendo forse di aver messo in busta una mossa debole. Monticelli disse che «la maniera singolare scelta da Spasskij per comunicare il suo abbandono nella 21ª partita è stato l’ultimo gesto della Guerra Fredda scacchistica combattuta a Reykjavík». Una sovrapposizione simbolica in cui assunti ideologici e paradigmi culturali dei protagonisti ebbero un ruolo determinante. «Battere il campione russo – scrive Fine – acquista il significato simbolico di sconfiggere i russi». E prosegue: «La leggenda vuole che il gioco degli scacchi sia nato come sostituto della guerra, e molti ci credono: una battaglia pacifica tra un americano e un russo, invece di quella guerra spaventosa. Nel ca- so dell’incontro del 1972, questo carattere simbolico fu sanzionato, in un certo senso, dall’intromissione di personaggi politici del massimo livello: si disse che Brežnev si tenesse personalmente in contatto con Spasskij mentre Kissinger consigliava Fischer», a dimostrazione di come la sfida andasse oltre il gioco, con le sue implicazioni politiche e culturali. Frank Brady, in Finale di partita (Saggiatore) ha scritto che Fischer alla domanda se l’incontro sarebbe stata una resa dei conti, disse: «In un certo senso, ma non tra me e Spasskij, con i russi». Non è perciò un caso, d’altra parte, che come spiega in una nota Brady, per scrivere il libro ha avuto accesso a fascicoli di Kgb ed Fbi. Tuttavia, scrive Vittorio Giacopini in Re in fuga (Saggiatore) che Fischer e Spasskij seguono regole imperscrutabili: «Quei due si parlavano in codice, a modo loro, e la battaglia ufficiale tra le delegazioni avveniva sempre su un piano diverso, evanescente». Alla fine vinse Fischer e fu un cambiamento epocale per la storia degli scacchi. Nella raccolta sui suoi predecessori Kasparov riporta una battuta di Evans a proposito del match: «Quando Fischer arrivò così vicino all’Olimpo scacchistico, si insinuò in lui un terrore di perdere che prima gli era sconosciuto. A Reykjavík riuscì a superare le sue paure solo quando si rese conto di aver minato l’equilibrio spirituale di Spasskij». Ha ragione Porpora, allora, quando dice: «Gli scacchi sono la vita».

La biblioteca. Tra vulnerabilità e scompiglio, vite da campioni dell'arrocco

Il mondo degli scacchi è costellato da figure epiche, al confine con il mito. Personaggi stravaganti, bizzarri, eleganti, vittime di disturbo paranoide. Morphy era convinto che tutti cercassero di avvelenarlo, Steinitz era considerato un isterico con disturbi del sonno, Philidor aveva vissuto all’epoca dell’illuminismo ed era un musicista amico di Diderot, Lasker era dottore in filosofia e matematica (fu il primo a comprendere la psicologia come componente della lotta sulla scacchiera). In questa costellazione, tre di queste immense figure sono state José Raúl Capablanca, cubano, il Don Giovanni del mondo scacchistico, campione del mondo dal 1921 al 1927, Aleksandr Alechin, russo, campione dal 1927 al 1935 e dal 1937 al 1946 e Michail Tal’, lettone, soprannominato il Mago di Riga, campione dal 1960 al 1961, il più giovane prima di Kasparov. «Si dovrebbe giocare a scacchi – dichiarò Tal’ – perché ci si diverte. E non si deve aver paura di perdere una partita». È da questo concetto che Giorgio Fontana, nel romanzo Il Mago di Riga (Sellerio, pagine 122, euro 13,00), racconta l’uomo dietro alla scacchiera, l’amore per il rischio, le partite che per lui erano «la paziente tessitura di un altrove», le malattie costanti, le leggende nei circoli scacchistici sovietici, le sfide con Fischer e una vita movimentata: «Questo miraggio delle partite o delle vite senza sbagli: no, Miša si teneva volentieri il fallimento. Si teneva la vulnerabilità e lo scompiglio». Chi viveva di scompiglio e mondanità era Capablanca. Per lui era tutto apparentemente facile, non passava ore e ore sulla scacchiera a studiare posizioni, perché c’era una vita là fuori (di suo è in uscita per Cliquot Le ultime lezioni, pagine 144, euro 18,00) e Alechin seppe sfruttare questo aspetto. Lo racconta in La diagonale Alechine, romanzo appena uscito per Neri Pozza (pagine 256 euro 18), Arthur Larrue, che ridà vita alla lucidità e all’imprevedibilità del gioco d’attacco di un genio, definito da Arnold Schönberg «lo scacchista più immortale di Richard Wagner e di Jack lo squartatore». Quello stesso Alechin che, nonostante ci vedesse malissimo, indossava gli occhiali solo quando giocava: «Vedeva molto meno lontano nella vita che sulla scacchiera. In quello spazio e in quel tempo che gli esseri viventi concordano di chiamare “reale”, egli non predicava né il futuro né dominava il destino». E il cinquantenario della sfida con Spasskij è occasione per la ricostruzione di quella partita, centrata su Bobby Fischer, di La mossa del matto (Mondadori, pagine 188, euro 19,00): Alessandro Barbaglia vede in quello scontro similitudini con un mito fondativo della nostra cultura, l’Iliade.


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