sabato 16 marzo 2024
Il prefetto del Dicastero per la Cultura al Festival Soul prende spunto da Rilke per indicare, con poeti scrittori e filosofi, la figura oggi come del divino nel quotidiano
Giotto, "La natività di Gesù"

Giotto, "La natività di Gesù" - archivio

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Pubblichiamo ampi stralci della lezione “Loda all’angelo il mondo” tenuta sabato a MiIano dal cardinale, teologo e poeta José Tolentino de Mendonça, prefetto del Dicastero vaticano per la cultura e l’educazione, che si è ispirato ai versi della nona tra le Elegie duinesi di Rainer Maria Rilke. L’incontro si è svolto nell’àmbito di “Soul”, festival di spiritualità organizzato dall’Università Cattolica del Sacro Cuore. Fino a oggi cinquanta incontri tra dialoghi, reading, laboratori in luoghi laici come sale, scuole, musei, strade coinvolgeranno la città interrogando le coscienze, cercando parole che rispondano alla domanda di senso di ciascuno, esercitando uno sguardo capace di stupirci. Di questo “umano” la meraviglia sta all’inizio, “vigilia di ogni cosa”, come recita il sottotitolo del festival.

Il cardinale José Tolentino de Mendonça

Il cardinale José Tolentino de Mendonça - Ansa/Fabio Frustaci

Prima di propriamente accettare la sfida proposta dal verso rilkiano “Loda all’Angelo il mondo”, vorrei fare due brevi annotazioni. La prima riguarda il destinatario della lode: l’Angelo. È vero che la cultura contemporanea deve a tanti poeti – e tra loro merita un posto particolare Rainer Maria Rilke –, la persistenza della figura dell’Angelo, - di quel «brusio degli angeli» per ricordare il titolo noto del sociologo Peter Berger - anche all’interno di un’ermeneutica secolarizzata che non sa cosa sia esattamente un angelo. In proposito sono illuminanti le parole di Leonard Cohen in una intervista: «Una delle cose che mi piacevano di più della prima poesia beatnik […] era l’uso della parola angelo. Non ho mai capito quale significato volessero darle, […] individuando in ognuno una sorta di luce. Come io ho usato la parola angelo non lo so; l’ho dimenticato. Ma non credo di avere fatto meglio di Ginsberg e Kerouac negli anni Cinquanta. Amavo le poesie in cui parlavano di angeli». Di fatto, la poesia, anche se a tentoni e nella penombra categoriale, cospira per mantenere vivo il fascino dell’angelo che, lungi dall’essere entità superflua, il rappresentante di un immaginario religioso superato, come pretendeva il razionalismo, si rivela vicino, inamovibile, necessario. Quella di «necessario» è, come sappiamo, la categoria a cui ricorre una indimenticabile lirica di Wallace Stevens. Ed è quella che il filosofo Massimo Cacciari adotta per indicare, all’angelo per opposizione al daimon, un modello di pensiero che accetta di dialogare con una esteriorità rispetto a sé, con la possibilità di una trascendenza, poiché, secondo lui, l’angelo testimonia un aldilà: «Il mistero in quanto mistero».

In effetti, tra le tante figure che hanno popolato l’immaginazione, la letteratura e le convinzioni degli uomini per lunghissimi secoli (tritoni, unicorni, chimere, draghi, ciclopi, fauni, leviatani e chissà quant’altro), solo gli angeli sembrano restare. Anche secolarizzati, sono un vestigio del divino – o del desiderio, della ricerca ininterrotta, della fame insoddisfatta di divino – che resiste. Gli angeli rimangono, ne sentiamo la mancanza, ci consola avvertire il loro passaggio, a mo’ di un enigma la cui frequenza – anche culturale, non soltanto cultuale - ci intriga ma che non cessa di essere illuminante. Un altro poeta che amava molto gli angeli fu l’argentino Jorge Luis Borges; la sfida che ci lascia è che «l’uomo non sia indegno dell’Angelo», dal momento che costui gli ricorda «che non sarà mai solo». Lodare all’Angelo il mondo è possibile perché non siamo soli. La seconda annotazione ha a che vedere con la natura del mandato che Rilke ci affida: quella di un imperativo controcorrente che ci ordina di lodare, in un tempo che ci trova probabilmente più inclini al lamento se non, peggio ancora, alla commiserazione. Penso a una frase scritta da G.E. Lessing: «Il più grande dei miracoli è che i miracoli veri ci appaiano come banali eventi di tutti i giorni». Avremmo in effetti bisogno di una scuola dello sguardo che ci aiuti a comprendere la natura di ciò che accade e ci sfugge. E la poesia è questo: una scuola dello sguardo. Fernando Pessoa lo dice esplicitamente: «L’essenziale è saper vedere, saper vedere senza stare a pensare, saper vedere quando si vede, e non pensare quando si vede, né vedere quando si pensa. Ma questo esige uno studio profondo, un imparare a disimparare». (...)

Non passa giorno senza che siamo visitati da un angelo. La grande sfida, però, è quella dell’ospitalità verso la realtà che noi siamo o non siamo disposti a vivere nel concreto. C’è un passo biblico, la Lettera agli Ebrei, che proprio qui incentra la necessaria conversione del nostro atteggiamento: «Non dimenticate l’ospitalità; alcuni, praticandola, senza saperlo hanno accolto degli angeli» (Eb 13,2). Nella maggior parte dei casi, la questione non è inventare, ma riconoscere. Non tanto forzare l’irruzione dell’inedito, ma reimparare a vedere l’ordinario. Non la scoperta spettacolare, ma l’umile abbraccio alla vita che ci è data, e alle sue circostanze. «Loda all’Angelo il mondo», ci sollecita il poeta. Rendiamolo quindi possibile. (...) Noi valorizziamo poco la vita quotidiana. Il quotidiano ci appare spesso come un campo chiuso, un’arena opaca dove combattere, con fatica, la lotta per la sopravvivenza (e solo quella), tra gli ostacoli e le difficoltà che il tempo (questo lottatore ben più abile di noi) ci frappone. «Quando penso al quotidiano, l’infinito mi sembra una cosa più distante», mi confidò un giorno un’amica. Che si lamentava di come il giorno per giorno possa essere disfunzionale, assordante, ruvido e dissonante; di come anche la nostra esistenza quotidiana spersonalizzi e renda macchinali persino i gesti in cui vorremmo essere pienamente presenti. (...)

Mi piace pensare a quanto sia esigente, umile, ma anche grandiosa, l’esperienza umana associata ai verbi che presuppongono una ripetizione. Nella vita adulta abbiamo a che fare, per la maggior parte del tempo, con verbi di questa natura. L’ultimo giorno dell’anno passato mi sono ritrovato a scorrere con gli occhi, nel dizionario, ad uno ad uno, molte centinaia di verbi di questo genere. È una mappa sorprendente ma incredibilmente reale. Non meravigliatevi di quello che sto per confessarvi: ho avvertito che quella era una forma di preghiera. E, anche se alcuni verbi mi riempivano gli occhi di lacrime, a motivo delle immagini interiori che spontaneamente risvegliavano in me, era impossibile non leggere quell’elenco sterminato con un sentimento profondo di gratitudine. Reimparare, reintegrare, restare, restaurare, restituire, riabitare, riabituare, riaggiustare, ricostruire, ricuperare, ridire, rifare, rilanciare, rimaneggiare, rinforzare, ringiovanire, rinnegare, riparare, ripassare, risaltare, riscaldare, risentire, risorgere, rispolverare, ritardare, ritrarre, rivedere, rivisitare… Quanta esistenza spesa, quanto sforzo, disillusione e speranza, dietro queste parole, quanta maturazione e perplessità, stanchezza e resilienza, quanta accettazione, vulnerabilità e testardaggine. (...) La cosa più straordinaria, però, è capire che tutto ciò in nulla ci sminuisce. Al contrario, i verbi che presuppongono ripetizione condividono con noi una sapienza che non cambieremmo per nessun’altra cosa. E ci permettono di scoprire dimensioni della realtà senza le quali noi saremmo più settari e univoci, mentre la vita è invece una spigolatura molteplice e polifonica.

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