mercoledì 15 luglio 2020
Settant’anni di storia, crimini e ideologia: prodotto in 100 milioni di esemplari è il fucile più venduto da sempre: efficiente e leggendaria macchina di morte di duro profilo simbolico
Un bambino soldato armato di kalashnikov in Iraq nel 2003

Un bambino soldato armato di kalashnikov in Iraq nel 2003 - Ansa/Ahmad al-Rubaye

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È davvero difficile parlare di armi senza essere umanamente ed eticamente sopraffatti dalle immani tragedie che esse comportano. Ma sarebbe ipocrita non considerare che con le armi è stata costruita la storia. Spesso la possibilità per un popolo di restare libero, così come per alcune nazioni quella di diventare imperi, è stata facilitata dalla capacità di fare e usare al meglio determinate armi. Così la forza espansiva di Alessandro Magno era in gran parte costruita sulla straordinaria abilità del suo esercito nell’uso del cavallo. E se Annibale è arrivato a impensierire Roma lo si deve anche al ruolo avuto in battaglia dai suoi elefanti. Allo stesso modo la temibilità dell’esercito romano era dovuta al cinico ed efficace uso che faceva della spada da combattimento, il gladium, e del giavellotto, il pilum. Può sembrare banale (o crudele), ma le armi, e paradossalmente non quelle di distruzione di massa, hanno condizionato le sorti dei popoli. Alcune più di altre. Nel Medioevo, per esempio, l’abilità degli arcieri inglesi nell’usare e nel costruire l’economico, agile e facilmente riproducibile “arco lungo inglese” in legno di tasso ha fatto la differenza negli scontri con gli scozzesi e nella Guerra dei cent’anni con i francesi. Fra XIX e XX secolo gli stessi inglesi hanno potuto conservare un po’ più a lungo il loro impero anche grazie all’efficienza del fucile Enfield usato dall’esercito coloniale. E potremmo anche dire che le sorti della Seconda guerra mondiale sul suolo europeo si siano in buona parte giocate nel sanguinoso confronto fra il fucile Mauser tedesco e il fucile Garand americano. Da quell’epoca ai nostri giorni un’altra arma, globale prima della globalizzazione, ha caratterizzato la storia mondiale in battaglia e, forse come mai altre armi in precedenza, anche dal punto di vista ideologico.

Stiamo parlando del famigerato Kalashnikov, in fucile automatico d’assalto sovietico che dal 1947-1949, quando è entrato in produzione, vanta il triste primato di essere stato costruito in 75 milioni di esemplari “tipo” e in circa 25 milioni nelle sue varianti. Il secondo fucile più prodotto nello stesso periodo, l’americano M16, contrapposto sui campi di battaglia di tutti i continenti a cominciare dal Vietnam e concorrente su tutti i mercati delle armi, non ha raggiunto i 9 milioni di esemplari. Di AK–47 e della sua storia (Odoya, pagine 119, euro 14) ci parla in un interessante libro lo sceneggiatore e scrittore Gordon Rottman, ex militare delle forze speciali statunitensi e reduce del Vietnam. Una storia emblematica e dai molteplici risvolti iniziata per mano di un giovane kulako e quindi ex nemico del popolo, soldato nella Seconda guerra mondiale, esperto di ingegneria meccanica. Mikhail Timofeyvich Kalashnikov era nato nella Siberia dell’est nel 1919 (è morto nel 2013) e in guerra si era reso conto di quanto la maggiore efficienza dei Mauser avesse segnato il destino di decine di migliaia di soldati sovietici. Ferito, era stato assegnato, per la sua abilità, al lavoro in officine meccaniche. Qui, da militare di carriera, inizia a lavorare su un’arma a misura delle lamentele che aveva sentito dai soldati al fronte: pratica, semplice, efficiente in qualunque condizione (anche le più estreme e anche senza manutenzione), leggera, di scarso rinculo e facile da usare in combattimento. Dopo un paio di fallimenti nel 1947 realizza l’AK ( Avtomat Kalashnikova abraztsa 1947 goda - Modello automatico Kalashnikov 1947), che viene scelto dalle forze armate sovietiche per rinnovare la loro dotazione a partire dal 1949. Da quel momento il successo di quest’arma economica e povera sugli scenari mondiali è stato devastante.

Abbiamo parlato del Vietnam, dove gli AK-47 arrivavano dalla Cina che li produceva in concessione. Ma la sua fama era grande anche fra i militari americani e quando fu necessario armare i mujaheddin afghani contro i russi, la Cia lo fece utilizzando kalashnikov di produzione cinese. La stessa arma prodotta dall’Egitto o fornita dai sovietici caratterizzò tutti i conflitti in Medio Oriente a partire dalla Guerra dei sei giorni e dal Libano. Ha armato e arma i palestinesi, i rivoltosi in Somalia e in tutta l’Africa, i guerriglieri in Sudamerica, le maggiori organizzazioni criminali e terroristiche del mondo, compresi i narcotrafficanti. Nei fatti, dalla Guerra fredda in poi, l’AK-47 nelle sue svariate versioni ha assunto il valore ideologico di arma del popolo e della rivoluzione. La sua facilità d’uso ne ha fatto il tragico armamento dei bambini soldato nei conflitti in Africa e in Oriente, dalla Nigeria al Sudan, all’Indonesia. Ma anche lo strumento di esecuzioni sommarie in Cambogia, in genocidi e svariate guerre etniche di tutto il mondo, comprese quelle dei Balcani. Una fama costruita sul campo al punto di diventare simbolo ed emblema. Se in Urss l’AK-47 era stampigliato come effigie su una moneta, in Mozambico un kalashnikov incrociato con una zappa campeggia sulla bandiera dal 1975 così come su alcune banconote. In alcuni Paesi africani il diminutivo “Kalash” viene usato come nome per i bambini. Saddam Hussein e Ossama Benladen si sono spesso fatti fotografare con un AK in mano. A Saddam è poi legata una 'leggenda' diffusa dalla propaganda americana attraverso un noto giornale nel 2002, secondo la quale la “Moschea madre di tutte le battaglie” ultimata a Bagdad nel 2001 aveva quattro minareti a forma di canne di AK-47 e quattro a forma di missili scud. Suggestione che è possibile smentire osservando le imagini, anche se i minareti sono effettivamente 'originali'.

Nel 1990, invece, Violeta Chamorro, appena nominata presidente del Nicaragua, donò al presidente Usa George H. Bush una targa con su montato un AK tagliato in due a dimostrare la volontà di disarmare il Paese dopo aver sconfitto i sandinisti. Ma ancora oggi a Managua il Monumento ai veri eroi della rivoluzione raffigura un uomo con piccone in una mano e nell’altra un AK-47 sollevato al cielo. A un certo punto della sua vita, Kalashnikov, (che per la sua invenzione non si è mai arricchito, a differenza dell’omologo “inventore” americano dell’M16, Eugene Stoner, che ha goduto di royalty per ogni arma prodotta) ha sentito più volte il bisogno di giustificarsi per la «distruzione che la mia invenzione porta con sé», sostenendo di averla pensata per la difesa della patria da possibili altre invasioni e non certo per i pessimi utilizzi promossi dai politici negli scacchieri internazionali. Lui stesso, però, nei primi anni Novanta, da generale in pensione, era stato usato dal governo post sovietico come promotore internazionale per le vendite dell’arma, che nei fatti era il primo bene di esportazione russo in quegli anni. Solo a cominciare dal 2004, come presidente onorario della britannica Kalashnikov joint Stock vodka company che produceva una vodka a 82 gradi in bottiglie a forma di AK-47 e con l’immagine del generale sull’etichetta, ha potuto trarre qualche vantaggio economico dalla sua “creatura”. Eppure, in quello stesso periodo, forse tornando con la memoria alle origini kulake, e per certi versi agli ideali originari della Rivoluzione d’ottobre, di tanto in tanto si lasciava andare con tristezza a commenti del tipo «avrei preferito inventare una macchina agricola che aiutasse i contadini nel loro lavoro». Una storia tragica e paradossale come tante. Oggi, sapendo che l’AK-47 continuerà a spezzare vite e con esso e dopo di esso altre armi con uguale o maggiore efficienza, non possiamo, almeno nella speranza e nella preghiera, non associare il rammarico dell’anziano generale Kalashnikov alla visione biblica, ugualmente agricola e rivoluzionaria, del profeta: «Spezzeranno le loro spade e ne faranno aratri, delle loro lance faranno falci; una nazione non alzerà più la spada contro un’altra nazione, non impareranno più l’arte della guerra» (Is 2, 3).

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