domenica 24 novembre 2019
Il film di Taika Waititi, il regista di “Thor: Ragnarok”, ha aperto il 37° Torino Film Festival: una commedia nera con al centro un bambino e il suo sguardo puro sulla follia del nazismo
Taika Waititi e il piccolo Roman Griffin Davis nel film “Jojo Rabbit”

Taika Waititi e il piccolo Roman Griffin Davis nel film “Jojo Rabbit”

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Il mondo visto con gli occhi dei bambini ha sempre qualcosa di magico e colorato, anche quando è lacerato da guerre e violenze. Perché i più piccoli sanno sempre mascherare il volto più assurdo della vita cogliendone tutte le contraddizioni. È quello che accade all’adorabile protagonista di Jojo Rabbit, il film di Taika Waititi (Thor: Ragnarok) che ieri ha inaugurato la 37esima edizione del Torino Film Festival, ma è stato già premiato dal pubblico del Festival di Toronto.

Jojo Betzler, soprannominato "Rabbit", coniglio, per un essere riuscito a uccidere una povera bestiola durante un’esercitazione della gioventù hitleriana, è un bambino di dieci anni che nella Germania nazista ha deciso di diventare la guardia personale del Führer. Hitler è vero eroe per il piccolo fanatico al punto da diventare il suo amico immaginario mentre il padre è al fronte e la madre prova a combattere contro il regime come può.

Quando lo scoppio di una granata lo ferisce al volto e lo costringe e una convalescenza a casa, Jojo scopre che tra le mura domestiche, e precisamente in una stanza segreta adiacente a quella della sorellina morta, la madre tiene nascosta Elsa, una ragazzina ebrea che però non ha le corna, le zanne e gli artigli come i giudei descritti dalla propaganda. Costretto a convivere con il nemico e pieno di dubbi sulla sua condotta di babynazi, il piccolo dovrà necessariamente rivedere le sue idee sul nazionalsocialismo smantellando valori e certezze scoprendo l’orribile verità sull’odio razziale, sempre a caccia di nuovi nemici. Proprio alla fine del film infatti, uno dei piccoli aspiranti nazi riferisce all’amichetto che forse i nazisti non sono il peggio, perché sono appena arrivati i russi, e i russi, pare, mangiano i bambini.

Diretta da un regista neozelandese di origini ebraico-russe da parte di madre e maori da parte di padre, interpretata da Scarlett Johansson, Sam Rockwell, Rebel Wilson, Thomasin McKenzie (vista ieri anche nel western australiano The Kelly Gang di Justin Kurzel) e dal giovanissimo Roman Griffin Davis che ha accompagnato il film a Torino insieme al produttore Carthew Neal, questa commedia nera che tanto piacerà al pubblico dei bambini (sarà nelle sale dal 23 gennaio con 20th Certury Fox ormai passata alla Disney) è tratta da romanzo Il cielo in gabbia di Christine Leunens ambientato nella Vienna del 1938, ma se ne discosta per aggiungere elementi più leggeri e comici. Una scelta che ha portato l’autore a introdurre il personaggio di Hitler, infantile, capriccioso, sciocco e naïf: non un ritratto realistico, bensì il frutto dell’immaginazione di un bambino che lo sostituisce al padre assente e lo utilizza come filtro per comprendere la difficile realtà che lo circonda.

Torna dunque l’interrogativo che ci si pone di tanto in tanto di fronte ai film che mettono in ridicolo regimi e dittatori trasformandoli nei grotteschi protagonisti di una farsa: è appropriato ridere di chi ha ucciso milioni di persone? Per alcuni sarebbe un vero e proprio atto sacrilego, per altri un modo molto efficace per fare satira e smantellare miti e ideologie. Basti pensare che nel 2020 si festeggerà l’80° anniversario de Il grande dittatore di Charlie Chaplin, il primo a ridere sul grande schermo di Hitler e del nazismo, contemporanei al film, ottenendo ben cinque candidature agli Oscar. Poi sono arrivati film come The Producers - Una gaia commedia neonazista di Mel Brooks, La vita è bella di Roberto Benigni.

Trovare però un attore disponibile a interpretare questa caricatura di Hitler che predica lo sterminio e poi sviene alla vista del sangue non è stato facile, tanto che alla fine è stato il regista stesso a vestirne divisa e baffetti. In quella che definisce una lettera d’amore a sua madre, Waititi sceglie dunque la risata per mettere alla berlina miti e riti del potere, l’estetica nazista e fare i conti con la Storia, senza tralasciare però il dramma che emerge prepotente in alcune scene usate per ricordarci che comunque c’è poco da ridere e che per i tanti bambini tedeschi costretti dai nazisti a imbracciare le armi fu un’esperienza atroce.

Più scanzonato all’inizio, il film racconta poi la lenta presa di coscienza di Jojo che con i suoi occhi sgranati sul mondo comincerà a scoprire gli inganni e le menzogne di cui è stato vittima insieme a tanti coetanei, diventando un omaggio alla resilienza contro l’orrore della guerra. Letteralmente preso a calci dal più convinto dei suoi ammiratori, Hitler vola via come un palloncino sgonfiato dalla forza dell’amore e della poesia.

Una delle ragioni che hanno spinto il regista a portare sullo schermo questa storia è un sondaggio del Guardian realizzato nel 2018: secondo i dati raccolti, il 41% degli adulti e il 66% dei millenial americani non hanno mai sentito parlare di Auschwitz. Un risultato ancora più sconcertante alla luce del risorgere di movimenti di estrema destra che lamentano il «lavoro lasciato a metà» da Hitler. E poi dal momento che gli amici immaginari sono persone a cui i più piccoli trasferiscono competenze, esperienze e saggezze che si aspettano dagli adulti, il film punta il dito contro chi ha tradito e continua a tradire, negare e calpestare l’infanzia, ieri come oggi, nell’Europa della Seconda guerra mondiale, raccontata nel film da un’inedita prospettiva, e nei tanti Paesi del mondo dove la popolazione civile travolta da sanguinosi conflitti paga il prezzo più altro.

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