domenica 14 ottobre 2018
Scrittore, filosofo, poeta, stimato da Florenskij, precursore del dialogo fra ortodossi e cattolici. Per Berdjajev è stato il «rappresentante più universale della cultura russa del XX secolo»
Vjačeslav Ivanovič Ivanov (Mosca, 28 febbraio 1866 – Roma, 16 luglio 1949)

Vjačeslav Ivanovič Ivanov (Mosca, 28 febbraio 1866 – Roma, 16 luglio 1949)

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«Chi è dunque Vjačeslav Ivanov? Uno scrittore? No, scrittori sono Merežkovskij, Brjusov e simili, mentre per V.I. scrivere è solo uno dei modi per esprimere se stesso. Un poeta? Anche, un poeta. Be', Puškin è un poeta, ma V.I. è qualcos’altro. Uno studioso? Anche, uno studioso. Ma, al fondo, egli è certamente tutta un’altra cosa. Se egli fosse un uomo dell’antichità, egli sarebbe simile a Pitagora. Se fosse un ciarlatano, sarebbe diventato Steiner. Se fosse un santo, sarebbe uno starec…». Così scriveva, in una lettera allo stesso Ivanov, Pavel Florenskij, certo oggi ben più conosciuto del destinatario, per il quale don Giuseppe De Luca reclamava «un riconoscimento, una riconoscenza, una conoscenza» che però in Italia ancora tarda. E allora ben vengano appuntamenti come quello del 16 ottobre al Pontificio istituto orientale, omaggio al protagonista del movimento simbolista russo che, nel 1924, approdò definitivamente in Italia, stabilendosi, dopo un decennio al Collegio Borromeo di Pavia (dove andavano a trovarlo Croce, Buber, Zelinskj…), nell’amata Roma, lì insegnando al Russicum e al Pontificio istituto orientale con un posto per lui voluto dallo stesso Pio XI.

A quella data, già da dodici anni Ivanov aveva aderito al cattolicesimo, senza abiura, con una formula, validata dal Sant’Uffizio, recitata in San Pietro, seguendo la liturgia paleoslava e con la comunione sotto le due specie. Lui, del resto, l’inventore del paragone caro a Giovanni Paolo II tra l’Occidente cattolico e l’Oriente ortodosso e i due polmoni della Chiesa.

Al Pontificio istituto orientale Ivanov viene ricordato in tre momenti per presentare tre libri, con l’arcivescovo Cyril Vasil’, segretario della Congregazione per le Chiese orientali, Stefano Caprio, Marco Sabbatini, Andrej Shishkin e altri studiosi. Il primo volume è dell’Ivanov poeta 'simbolista realista' come diceva di sé, consapevole, contro ogni approccio soggettivista, di dover rendere conto solo all’amore, l’unica forza reale in grado di affrancare l’uomo dall’individualismo, spingendolo all’unità con l’altro, alzando sul mondo il suo manto di simboli. Si tratta di un’antologia di versi, saggi e lettere arricchita di inediti.

Si intitola A realibus ad realiora, curata da Shishkin e Sabbatini, e introdotta da Marco Rupnik, per le edizioni Lipa. Il secondo è dell’Ivanov traduttore, qui con la versione di I sette sonetti di Michelangelo in un’edizione artistica in italiano e russo illustrata da sessantaquattro disegni firmati G.A.V. Traugot (Aleksandr Georgevic è l’unico rimasto del celebre trio di artisti pietroburghesi), edita da Maier col sostegno di Gazprombank. Il terzo volume presenta infine l’Ivanov pensatore negli atti del convegno (curati da Maria Plioukhanova e Shishkin) “Dialettica tra contingenza storica e valore universale in V. I.”. Un evento che nel 2016 invitò specialisti di tutto il mondo a riflettere sulla dicotomia tra “natìo” e “universale” nel pensiero del «rappresentante più raffinato e più universale della cultura russa del XX secolo». Così Nikolaj Berdjajev del quale Ivanov finì per attuare, lo ricorda in queste pagine Fedor Stepun, l’esortazione «pensare meno al problema di Dio in sé e più al solco di Dio nel problema del mondo».

Un tema sul quale Ivanov (dalla fine degli Anni ’30 coinvolto nel progetto di un’edizione delle Sacre Scritture in russo) lavorò a lungo, concentrandosi su soluzioni originali e assai ardue. La sua via d’uscita dal nichilismo ateo, ad esempio «passava dalla trasfigurazione mitologica, dall’applicazione di simboli perduti a una realtà tutta da rigenerare», ricorda Rupnik. Che aggiunge: «Da questi sentimenti nacque e crebbe il suo grande progetto: fondere la mitologia antica con l’anima russa, esprimere in forma arcaica l’esigenza della vita nuova, incrociare stili e generi letterari per ispirare un nuovo modello di cristianesimo universale».

Questo progetto fu appoggiato da padre Philippe De Régis che nel ’38, rivolgendosi a Pio XI sosteneva Ivanov nel suo desiderio di pubblicare un testo narrativo dove palesare «la sua concezione della vita e della religione», una sorta di testamento spirituale, autobiografico, destinato a risonanza: «Sarebbe collegato al libro di Solov’ev su La Russia e la Chiesa universale», spiegava il rettore del Russicum. Papa Ratti acconsentì facendo in modo che, con uno stipendio sicuro come docente al Pontificio istituto orientale, Ivanov potesse lavorarci. Lui vi si cimentò nella scia di Solov’ev e di quella “libera teocrazia” dove saldare primato romano e sobornost’ russa. Ma Ivanov volle pure tentare una sua via di unione universale. Il suo intento? Far sprigionare l’energia «dionisiaca» dell’anima russa sulle fondamenta salde del cattolicesimo «apollineo» di Roma. Insomma: una riscrittura dei miti cosmogonici e soteriologici dell’ellenismo attraverso il filtro dell’anima russa. Giungendo a esprimere nella sua Leggenda dello zarevic Svetomir, con un linguaggio impastato di epos e di sacro, «il limite tra il creato e l’increato».

Vjaceslav Ivanov (1866-1949). Sotto, Pio XI

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