giovedì 23 gennaio 2014
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«Il gol è la morte di tutto...», ha scritto l’unico vero “poeta del calcio”, Ezio Vendrame. Già, ma senza il gol non avrebbe neppure senso questo giuoco del pallone. Lo sport più universale che ci sia, nella sua storia ultracentenaria ha conosciuto, geni, nobili sognatori, ma anche ignobili scarponi. E pur non essendo una scienza esatta, come invece vorrebbe far credere qualche mago della panchina, può annoverare anche degli “inventori” o quanto meno degli artigiani, ai quali non sempre è stato riconosciuto il know-how dell’opera, pardon, del “bel gesto” compiuto. Ammirando la spettacolare rovesciata del romanista Florenzi (gol al Genoa), si torna indietro nel tempo, al gennaio del 1914, quando nella città portuale di Talcahuano, nel centro-sud del Cile, per la prima volta videro quella strana magia. Era la rovesciata secolare di un 20enne di origine basca, Ramon Unzaga Asla, giocatore dell’Estrella de Mar. Schiena rivolta verso terra e sospensione acrobatica con tiro finale al volo, quella per i “choreros”, gli abitanti di Talcahuano, divenne la chorera. Una stregoneria ai tempi, la cui paternità venne confermata dallo scrittore uruguayano Eduardo Galeano. Obiezione del Nobel per la letteratura Vargas Llosa, secondo il quale la «prima rovesciata» risaliva al 1894 e i primi testimoni furono i suoi connazionali peruviani. In un altro villaggio affacciato sull’Oceano Pacifico, Callao, la chorera cilena era già apparsa durante una partita tra marinai e coloni britannici. Sulle origini dei gesti atletici e dei relativi “inventori del gol” aleggia quasi sempre il dubbio, che a sua volta genera il ballottaggio. È il caso del “doppio passo”. «Qualcuno sostiene che già Mumo Orsi eseguiva quel “finto passo” con una gamba per raccogliere la palla con l’altra, ma io debbo dire che lo abbozzava appena. Biavati invece è stato l’attaccante che ha portato il passo doppio alla perfezione». Parole di Vittorio Pozzo, ct della Nazionale campione del mondo del 1934 e del ’38 e dell’unico oro olimpico a Berlino nel ’36, che ha permesso di omologare il “doppio passo alla Biavati”. La mitica ala destra del Bologna «che tremare il mondo fa», a fine carriera allenò ovunque, persino in Libia, ma al ritorno in patria, Biavati per sbarcare il lunario si riciclò come dipendente comunale. Del resto la vita dei calciatori, come una partita, è fatta anche di secondi tempi. E in quelli, specie nei minuti finali, era fortissimo l’oriundo argentino Renato Cesarini. Prima di scoprire il genio “cabezon” di Omar Sivori, per regalarlo alla Juventus, Cesarini involontariamente si creò la sua “Zona” omonima. Il 13 dicembre del 1931, nell’amichevole dell’Italia contro l’Ungheria, segnò un gol allo scadere del 90’ e siccome si trattava di un bis a cui i cronisti del tempo avevano assistito pochi giorni prima, durante una gara della Juve, quel lasso temporale venne ribattezzato “Zona Cesarini”. Marchio indelebile e che resiste ancora ai giorni nostri. Porte aperte invece al dibattito sulla paternità della “rabona”: il pallone che viene colpito spostando il piede con cui si calcia dietro all’altro di appoggio. Una finezza balistica che rimanda a campioni del calibro di Maradona e Zidane, ma quando ancora si chiamava «l’incrociata» al Sant’Elia, in un Cagliari-Spal, i tifosi sardi la videro fare a Giovanni Roccotelli. Pare che persino al “re” Pelè sia giunta la notizia di quell’ala destra baffuta specialista della “rabona”. Roccotelli non è Paganini e si ripete: quando passò all’Ascoli segnò un gol analogo al Brescia e con la Nocerina (in C) si permise il lusso dell’incrociata-rabona direttamente da calcio di punizione, beffando l’esterrefatto portiere della Juve Stabia. Colpi balistici da fermo, come il “rigore senza rincorsa” che negli anni ’70 Gianfranco Casarsa (attaccante di Fiorentina e Perugia) era l’unico ad eseguire dal dischetto. Un colpo d’arte che ha ispirato il “cucchiaio”: il rigore trasformato con colpo da sotto, centrale, a spiazzare il portiere proteso in tuffo. In Italia vige la versione romanesca, “er cucchiaio” di Francesco Totti ( lo realizzò agli Europei del 2000, in Italia-Olanda), emulato dai sopraffini Pirlo, Zidane, Ribéry, Di Canio e Mutu. Ma la memoria di cuoio di Bruno Pizzul ricordava che nella finalissima degli Europei del 1976, Germania Ovest-Cecoslovacchia, Antonin Panenka firmava dagli undici metri con una scucchiaiata boema vincente, e soprattutto antesignana.Altrettanto vincenti e primordiali, erano le “punizioni a foglia morta” calibrate dal “piede sinistro di Dio ”, Mariolino Corso. Un tiro con effetto a scendere, che l’interista Corso sperimentò in Nazionale nel 1961 a Tel Aviv (in Israele-Italia). L’autore del più mancino dei tiri (soggetto narrativo del compianto Edmondo Berselli), ha sempre dichiarato di ispirarsi alle punizioni del «maestro brasiliano» Didi, brevettatore della versione carioca della punizione a «foglia secca».Il “principe degli autogol” Comunardo Niccolai, difensore del Cagliari campione d’Italia del 1970, non ha avuto certo maestri per la sua specialità, ma tanti antenati che masochisticamente hanno scambiato la propria rete per quella avversaria.Quando le cose non vanno, nella vita come nel calcio, ci si rifugia in corner. Ma c’è chi dal corner ha tratto i maggiori benefici. Massimo Palanca, il “10” del Catanzaro anni ’80 con il suo scarpino da cenerentola - calza il 37 - aveva il vizio di segnare direttamente dalla bandierina. Così, di gol ne ha segnati 13 in carriera e una volta appesi i miniscarpini al chiodo Palanca ha anche svelato il segreto: «Sfruttavo il vento forte che soffiava allo stadio di Catanzaro...».Una delle peggiori onte per un portiere è subire gol da calcio d’angolo. In quel caso c’è solo un modo per riparare, uscire dalla propria area piccola e spingersi all’attacco per andare a segnare. Quella del “portiere goleador” è specialità sudamericana: il paraguayano Chilavert, autore di 62 reti, il colombiano Higuita, 41. Ma il recordman, che scende ancora in campo, è il capitano e n.1 del San Paolo Rogerio Ceni (classe 1973): è arrivato a quota 111 gol.Impressionante per uno che dovrebbe usare più le mani che i piedi. Però il calcio sì sa, è talmente imprevedibile che il suo più grande interprete, Diego Armando Maradona, rimarrà alla storia anche per quella rete di mano non vista dall’arbitro e con cui, a Messico ’86, punì l’odiata Inghilterra. Per gli argentini quella de “El Diego” non fu un’invenzione geniale, ma la «mano de dios».
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