venerdì 12 marzo 2010
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Da Sant’Arcangelo di Romagna, "qui, dove il mare altro non è che una striscia azzurra all’orizzonte", scrive Pier Vittorio Tondelli, attraversando le valli del Savio e del Marecchia, arrampicandosi fin su nel Montefeltro, a Pennabilli, si arriva alla "tana" del poeta Tonino Guerra. Con lo sguardo del cantore disincantato, da sempre proiettato al di là del "polverone" che fa il mondo, è arrivato a 90 anni (li compirà il 16 marzo). Oggi le sue giornate le passa aspettando che il mondo venga a fargli visita nella casa dove da ragazzo trascorreva l’estate. Qui in ogni stagione della vita, continua a raccogliere i frutti, specie quelli che nascono nell’orto delle meraviglie. «L’ho chiamato l’Orto dei frutti dimenticati - dice -, sono quelli di una volta che nessuno coltiva più. È un modo per non perdere la memoria dei vecchi sapori». Un orto in cui le piante sono legate ai nomi degli uomini incontrati nel suo lungo e affascinante cammino. «C’è un gelso che ha piantato il Dalai Lama, e tra i fiori, una sculturina con un ovale bianco che quando c’è il sole riflette l’ombra del viso di Federico Fellini. Nel mio giardino c’è un "fiore di pietra" dedicato a Marcello Mastroianni e uno a Tarkovskij, sono semplicemente dei pensieri d’affetto per le persone con cui sono stato bene». Ma la sua esistenza non è sempre stata rose e fiori. Appena ventenne, fu costretto a fare l’esperienza tragica del lager. «I fascisti mi catturarono e venni deportato al campo di Troisdorf. Innamorato dei poeti russi e della poesia di Montale e di Ungaretti, lì mi scoprii a comporre mentalmente dei versi nelle ore dei lavori forzati. C’è una poesia che descrive bene il mio stato d’animo nel lager, "La farfalla": "Contento, proprio contento sono stato molte volte nella vita, ma più di tutte quando mi hanno liberato in Germania che mi sono messo a guardare una farfalla senza la voglia di mangiarla"». L’arido spettro della morte nel lager, fece sbocciare la sua poesia, inzuppata nel dialetto romagnolo. «Il dialetto è una grande lingua, è quella che ha fatto i grattacieli. Il mio romagnolo è pieno d’umidità e di calore, ma ai giovani d’oggi, forse a ragione, insegnano che conta molto di più sapere l’inglese...». Lo dice con un velo di "Nostalghia", titolo di una delle tante sceneggiature scritte per i suoi compagni di viaggio, nella scoperta del meraviglioso mondo del cinema, come il regista russo Andrej Tarkovskij. «Di Tarkovskij mi colpiva quel suo cercare continuamente un gesto che lo rimandasse all’aldilà. Un giorno mentre viaggiavamo per l’Italia per le riprese di "Nostalghia" vidi che si era incantato a guardare un campo e allora gli chiesi che cosa l’avesse colpito tanto. E lui dolcemente mi rispose: "Vedi Tonino, la terra arata è dappertutto uguale. E guardandola mi fa pensare di trovarmi ancora in Russia". Provava un grande amore per la sua terra e non era affatto vero che stesse scappando».Il compagno di "fuga" del poeta invece, tutti sanno che è stato il fraterno Federico Fellini con il quale nel 1973, in "Amarcord" narra l’infanzia vissuta nella loro terra di Romagna. «Amarcord è l’acronimo dell’espressione romagnola "A" cioè "io", "m" apostrofo "arcord", e cioè "io mi ricordo". Fellini ha regalato al mondo la fantasia: vedeva le cose da un metro più alto, non di più, perché aveva bisogno di non staccarsi troppo e di sentire il calore della realtà». Una dimensione dalla quale a un tratto si allontanò Michelangelo Antonioni, con il quale Guerra ha firmato tutti suoi massimi capolavori, da "L’Avventura" a "Zabriskie Point". «Antonioni con una sola immagine ti dice più di mille parole e lo fa con eleganza. A tutti i registi che sono venuti dopo ha insegnato a prestare attenzione allo stile». Ognuno ha il suo e quello dell’amico Theo Angelopulos richiama addirittura alla classicità. «Angelopulos per me è uno dei grandi eroi greci. Nel suo cinema si ritrova, persino Socrate». Tra i geni "un po’ dimenticati" del cinema italiano riconosce quello di Elio Petri. «Un giovane che voleva cambiare il mondo e il suo cinema era convinto che fosse lo strumento adatto per fare quella rivoluzione. Pochi sanno che i "I giorni contati" a Mar del Plata vinse il primo premio battendo "Jules e Jim" di Truffaut. Con Petri ho lavorato a "La decima vittima", un film di fantascienza meraviglioso, con uno straordinario Marcello Mastroianni che andrebbe assolutamente rivisto. Ma lo stesso potrei dire per "Kaos" dei fratelli Taviani, grandi maestri del passo lento». Il discorso sul cinema sarebbe infinito, ma c’è una fermata obbligata che rimanda all’amata Russia in cui è ambientato "I girasoli", nato dall’empatia poetica con Vittorio De Sica. «Stiamo parlando di uno dei più grandi geni in assoluto. Il cinema di De Sica è una carezza verso i bambini. Mi ricorda la richiesta dolce di Papa Giovanni XXIII che un giorno ebbi la fortuna di incontrare quando vivevo a Roma - si blocca un istante e sorride al ricordo - . Mi trovavo a Piazzale Clodio ed ero fermo per colpa del traffico. Non riuscivo ad attraversare la strada, quando a un certo punto sbottai con una parolaccia. A cinque centimetri dal mio naso mi trovai faccia a faccia con il Papa: lui mi sorrise teneramente e mi fece il segno della Croce. Io rimasi di pietra...». Non era l’estasi del credente, ma il riconoscimento verso una spiritualità cristiana che affonda nelle sue radici familiari. «Mia madre era una terziaria. Era analfabeta, però conosceva a memoria tutta la messa in latino e io mi ricordo che un giorno le chiesi ingenuamente: "Ma chi è che vi capisce se parlata quella lingua lì?". Lei serena, indicandomi il cielo mi disse: "La capisce Lui, Tonino". Ho conosciuto e ho amato molti preti. Spesso mi capita di pensare al cardinale Ersilio Tonini e a alla sua vecchiaia che si scioglie in parole d’amore… Mi piace autodefinirmi "un comunista zen che si porta dentro San Francesco", ma che prova quasi invidia per le persone che hanno una fede. Tempo fa una domenica ero qui in campagna che passeggiavo, quando a un certo punto vedo una vecchina che andava a passo svelto e gli faccio: "Ma dove vai così di corsa?". E lei pronta mi fa: "Ma non l’hai sentita la campanella della chiesa?". Correva alla messa, andava di fretta per incontrare Qualcuno in cui crede». Il poeta continua a credere nell’uomo e nel mondo, anche se a volte deve strofinarsi gli occhi per vedere meglio gli orrori che stanno accadendo. «Provo sconforto nel vedere che la parola di Cristo non dissuade più l’uomo dai suoi pensieri malvagi. Viviamo in un mondo pieno di cattiveria che non ha memoria, né rispetto per la storia. La gente non legge più e si nutre di illusioni, fino a star male. Mi viene da ridere quando sento gli scienziati che ci promettono che potremo vivere fino a 120 anni. Ma a che serve, se a 80 anni metti tuo padre o tuo nonno in un ospizio? Sono triste quando vedo che i giovani si allontanano dagli anziani e che questi bambini di oggi crescono senza i nonni...». Ma il "poeta dell’ottimismo" non può lasciarci con quest’immagine amara e sconsolata. «Invecchiando faccio fatica ad essere ottimista come un tempo, ma quando ripenso al passato rivedo tanti buoni frutti. Certo ho subito la prigionia, un’operazione al cervello in Russia e un mese fa mi hanno trovato una macchia al polmone che adesso vedremo come andrà a finire. Ma è con il cuore che voglio dire a tutti una cosa: la vita è meravigliosa. E gli incidenti di percorso sono come la neve, arriva, copre tutto, ma poi basta un raggio di sole o un po’ di pioggia per ripulire la terra e si può tornare a camminare felici».
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