martedì 3 gennaio 2023
Il nuovo libro della spagnola Paniagua mette in guardia contro i rischi di un collasso improvviso della Rete, più fragile di quanto non siamo abituati a pensare
Esther Paniagua

Esther Paniagua - Einaudi

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«Internet crollerà e allora sperimenteremo ondate di panico», avvertiva nel 2014 il teorico della scienza cognitiva Daniel Dennet. Una preoccupazione condivisa da eminenti tecnologi come il fondatore di internet, Vinton Cerf. È stata il punto di partenza delle ricerche intraprese da Esther Paniagua, giornalista spagnola specializzata in scienza e tecnologia, per il saggio Error 404 (pagine 262, euro 19,50) pubblicato da Einaudi nella traduzione di Marta Zucchelli, in cui analizza l’impatto che avrebbe un collasso globale della Rete e gli scenari apoca-littici, che «i governi, gli Stati e noi tutti non siamo preparati ad affrontare ». « La domanda non è se ci sarà, ma quando, perché è solo questione di tempo, e abbiamo già avuto saggi a scala regionale o locale», spiega ad “Avvenire” l’autrice. « Il Covid-19 e l’accelerazione imposta alla digitalizzazione, con l’aumento della dipendenza tecnologica, hanno aggravato i rischi poiché tutto - infrastrutture critiche, ospedali, amministrazioni pubbliche, i nostri corpi, i mercati, gli elettrodomestici, ecc.- dipende da internet. Un crash distruggerebbe le nostre vite. E, come per la pandemia, stiamo ignorando i segnali d’allarme», assicura.

Nell’introduzione afferma che Error 404 non è una distopia, ma ha l’ambizione di anticiparla: in che senso?

Essere consapevoli della vulnerabilità della Rete e della nostra è il primo passo per essere meglio preparati, perché quante più cose connettiamo tanto più siamo vulnerabili e più ampio sarà l’effetto domino in caso di attacchi. Anche se una cyber-sicurezza al 100% non è possibile.

Per l’invasione in Ucraina, conosciamo le drammatiche conseguenze dei tagli di gas o elettricità, ma si parla poco di quelle potenzialmente più catastrofiche di un possibile crollo di internet: perché?

È una minaccia concreta e temuta da addetti alla sicurezza e dai governi. A ottobre sono stati tranciati cavi sottomarini di fibra ottica alle Shetland, in Scozia, dove la popolazione è rimasta quasi al buio telematico e telefonico. Guarda caso, nella zona incrociavano pescherecci russi che avevano ottenuto la licenza per navigare fra molte polemiche, perché il governo britannico aveva avvertito dei rischi di attentati a queste infrastrutture, che trasportano il 99% del traffico globale.

Dalla caduta delle connessioni quanto tarderebbe a diffondersi il caos?

Come Dennet, anche Danny Hillis, pioniere dell’informatica, o Jaron Lanier hanno messo in guardia sul fatto che abbiamo costruito un sistema di cui comprendiamo le parti separatamente, ma che utilizziamo oltre i limiti per i quali era stato pensato. I servizi di intelligence segnalano che sarebbe sufficiente un blackout online di 48 ore a propagare il caos, perché la gente inizi a temere per la sopravvivenza. In Belgio, un cyberattacco nel 2021 al principale server di telecomunicazioni, durato solo poche ore, paralizzò servizi critici, ospedali, istituzioni. Se si prolungasse, si aprirebbero scenari impensabili.

Enumera almeno cinque vie per provocare la débâcle della Rete, fra le quali errori nei protocolli di sicurezza...

Già nel 1998 un gruppo di hacker “etici” in un’audizione al Senato degli Stati Uniti dichiarò di aver individuato un punto debole nel protocollo base BGP, che regola i flussi di dati, mediante il quale avrebbero potuto far crollare l’intera Rete in 30 minuti. È stata l’attualizzazione di questo protocollo, secondo la versione di Meta, che il 4 ottobre 2021 provocò la caduta di FaceBook, WhatsApp e Instragram vissuta come un’apocalisse da miliardi di utenti.

Queste falle persistono?

Sì e sono intenzionali. Sono sfruttate da alcuni governi per esigere alle compagnie tecnologiche che i codici di sicurezza non siano fortemente crittografati perché questo renderebbe più difficile ai servizi di spionaggio l’accesso dalle porte di dietro. Così i sistemi sono più vulnerabili e noi più esposti.

Segnala un’altra importante criticità nel DNS. È vero che è protetto da quattordici guardiani a livello planetario?

Sì, ne ho intervistato uno, Joäo Damas, un portoghese che vive in Spagna e lavora per l’Asia Pacific Network Information Center. Il DSN è il sistema di nomi di domini, che collega un Url a una direzione. È come l’elenco telefonico di internet: se si cancellasse, non potremmo accedere ai contenuti. Per proteggerlo, l’ICANN, l’organo di governance, creò nel 2010 una ulteriore cappa di sicurezza, associata a chiavi digitali a loro volta collegate a chiavi fisiche, che consegnò a 14 persone selezionate a livello globale. Si riuniscono due volte l’anno sulle due coste degli Stati Uniti, dove sono i server, per aggiornare le password, che nessuno conosce per intero. Suona a film di James Bond, ma non ci mette a salvo da tutti i pericoli.

Lei ne indica molti capaci di provocare blackout, quali?

L’oscuramento cui ricorrono autocrazie e governi populisti per silenziare le proteste, la via più diretta alla censura, come in Iran o quando l’India ha isolato il Cachemire durante sette mesi. O anche gli attacchi informatici prodotti da masse di dati, che saturano la rete provocando il collasso dei servizi, com’è accaduto al sistema sanitario in Catalogna. Le incursioni con malware, per infettare banche, ministeri, giornali, aziende, e sequestrare dati a fini di riscatto, che provocano perdite miliardarie. Fino alle tempeste solari: una della stessa intensità dell’evento di Carrington, che nel 1850 distrusse le telecomunicazioni, avrebbe oggi effetti devastanti.

Nella guerra informatica l’Europa ha aumentato la resilienza?

Vagamente. La Ue sta regolamentando la cybersicurezza con il Cyber Resilient Act , ma la resilienza passa per l’alfabetizzazione della cittadinanza, perché l’anello più debole siamo noi. Il 90% dei cyber attacchi richiede qualcuno che clicchi su un link o scarichi un programma o un film online.

Dedica parte del saggio alla disinformazione, alla propagazione di messaggi di odio, alla discriminazione automatizzata, al “capitalismo della sorveglianza” dei colossi tecnologici. Dopo l’acquisizione di Twitter da parte di Elon Musk, siamo ancora in tempo a frenare una dittatura digitale?

Sì, ne sono convinta. Twitter aveva criticità già prima che Musk l’acquistasse. La sua gestione è molto pericolosa, ha smantellato l’intera struttura per la sicurezza del social. Ha introdotto un pagamento, che è un modo di dedemocratizzare la piattaforma e creare utenti di serie B. L’Onu gli ha ricordato che la libertà di espressione non si estende all’istigazione all’odio, alla discriminazione e alla violenza. Siamo tuttavia in tempo a stabilire meccanismi di regolazione. Penso a un’organizzazione sovranazionale, un’Alleanza per la governance digitale fra nazioni democratiche, per definire norme, progettare nuove istituzioni e procedure, e integrare nuovi diritti, come quello alla sconnessione.

È ottimista, nonostante tutto?

Il mio è un ottimismo critico. Il fondamento sono le connessioni umane. Come per il cambio climatico, siamo sempre più coscienti dell’insostenibilità dell’attuale modello estrattivo e più esigenti nei confronti della politica perché si diano cambi. Gli audit di impatto sociale dell’IA, degli algoritmi, dei software diventeranno obbligatori per garantire che le tecnologie siano usate come opportunità e ridurre i rischi. Nel libro cito la teoria dei cicli delle rivoluzioni tecnologiche di Carlota Pérez, in cui sostiene che siamo vicini al punto di flessione della quinta rivoluzione tecnologica, quella dell’informazione, che si produrrà dopo il collasso sociale, climatico, economico, etico e di valori che stiamo vivendo. E darà luogo a una nuova età dell’oro. Il peggio è alle spalle.

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