martedì 29 ottobre 2019
Il "riflusso" dell'impegno è figlio della crisi della civiltà industriale. Alla Cattolica un incontro per fare il punto sul ruolo che gli uomini di cultura possono giocare nel contesto del XXI secolo
Intellettuale, perché taci?
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“Chierici, cortigiani, battitori liberi. Quale ruolo per l’intellettuale?” è il titolo del convegno che si terrà domani nella Cripta dell’Aula Magna dell’Università Cattolica di Milano. Dopo i saluti introduttivi di Angelo Bianchi, preside della facoltà di Lettere e filosofia, e di Giuseppe Langella, direttore del Centro di ricerca “Letteratura e cultura dell’Italia unita”, sul tema “Immaginare la polis” interverranno Antonio Calabrò, Langella e Alessandro Zaccuri; sulla “Letteratura come progetto”, Filippo La Porta, Giuseppe Lupo e Bruno Pischedda; su “La militanza intellettuale”, Franco Contorbia, Luca Doninelli e Paolo Mauri; sulle “Narrazioni del Sud”, Goffredo Fofi, Toni Iermano e Raffaele Nigro. Moderano Giuseppe Lupo, Roberto Righetto, Stefano Salis. Il tema sarà anche al centro del “Focus” del prossimo numero della rivista “Vita e Pensiero”, che sarà in libreria a partire dal 14 novembre con scritti di Lupo (Il silenzio degli intellettuali? Parte dagli anni Ottanta, che anticipiamo in parte in queste colonne), Alfonso Berardinelli (Così è finita la stagione delle utopie), La Porta (Gli intellettuali davanti al sacro) e Salvatore Natoli (Sergio Quinzio e il paradosso cristiana).


La stagione di “riflusso” dell’impegno è figlia della crisi della civiltà industriale, l’ultima nella quale i “chierici” erano stati parte attiva nella società. Come capì Eco, iniziò il tramonto dell’intellettuale in funzione pubblica e il consequenziale ripiegarsi nella sfera privata Il passaggio dalla civiltà della terra alla civiltà delle macchine, consolidatosi in via definitiva tra gli anni Quaranta e Sessanta, non soltanto ha determinato un cambio epocale nell’antropologia di una nazione, ma ha aggiunto elementi al dibattito, determinando negli intellettuali un atteggiamento controverso nei confronti dei fenomeni tipici della società di massa. Per molti di essi la fabbrica ha rappresentato l’ultima cattedra da dove professare il verbo o impartire lezioni. Un nuovo tipo di engagement si è andato delineandosi con il diffondersi del miracolo economico tra le famiglie italiane: non più la fedeltà a un determinato credo partitico, com’era stato nell’immediato secondo dopoguerra, ma l’espressione di un consenso o di un dissenso al modello di una società ormai pienamente occidentalizzata, di fronte alla quale scegliere da che parte schierarsi, secondo quell’atteggiamento che Umberto Eco ha sintetizzato nel titolo del suo saggio più celebre: Apocalittici o integrati (1964).

Essere l’uno o l’altro era qualcosa che si spingeva al di là dei colori politici. Presupponeva cioè una scelta pro o contro il moderno: un fenomeno assai più complicato di quanto fosse nei presupposti di automobili ed elettrodomestici, la cui presenza però, in quegli anni, andrebbe necessariamente considerata come espressione del nuovo. Chiusi nei due estremi teorizzati da Eco – nel racconto del capitalismo come epifania di una prossima fine o come antidoto alla dimensione arcadica –, gli intellettuali sono stati costretti di nuovo ad assumere una posizione, esattamente com’era avvenuto nella stagione post-fascista. Mentre in quel periodo non sarebbe risultato difficile riconoscere, come scrisse Italo Calvino in Il sentiero dei nidi di ragno (1947), coloro i quali continuavano a sentire «gli inutili furori» da chi invece si trovava dalla «parte del riscatto» – e in questa schematica divisione trovava compimento anche la citazione indiretta degli «astratti furori» che Elio Vittorini evocava prima della Resistenza in Conversazione in Sicilia (1941) –, di fronte al dilagare della società di massa l’atteggiamento delle élite intellettuali è apparso il più delle volte confuso, involuto, poco nitido. Se osserviamo bene – da Pasolini a Bianciardi, da Fortini a Volponi, da Calvino a Eco – gli “apocalittici” sono di gran lunga più numerosi degli “integrati”, nonostante lo spettro del dissenso abbia assunto forme variabili, passando da atteggiamenti più radicali (come in Pasolini, Bianciardi, Fortini) a una problematica accettazione dell’industria (come in Volponi), oppure si sia presentata marcata di un’ombra antimoderna (in Calvino) o molto severa nei confronti della società di massa (in Eco). Pur se declinato con linguaggi diversi, l’atteggiamento dei dissenter – così li chiama Eco nel suo saggio – rimanda pur sempre a una sorta di fuga dal Novecento non tanto come negazione della Storia, piuttosto quale estremo tentativo di cercare rimedio ai mali del progresso nell’idealizzato ritorno allo “stato di natura”. Tale orientamento fa subito temere l’insorgere di un pericolo all’orizzonte, quello di una nuova arcadia: qualcosa che riflette in parte la definizione di «bel canto», usata da Vittorini nella celebre polemica contro Palmiro Togliatti (1947), ma che contiene i segni per cui ritenere irrisolto il controverso rapporto tra cultura e modernità.

L’arcadia di cui parla Vittorini consiste nella ricerca dell’ornato, ma sottintende anche il rischio di astrazione, a contromisura del quale appunto reagire come al tempo dell’engagement post-resistenziale. Il passaggio a un’Italia industriale non soltanto obbliga gli scrittori a esporsi pro o contro la modernità, ma diventa anche il momento in cui essi possono inserirsi all’interno del processo di industrializzazione, varcando in questo modo la soglia dell’integrazione. La fabbrica, dunque, si fa luogo parallelo alla sede del partito, alla cattedra universitaria, alla scrivania di funzionario editoriale o alla postazione da giornalista, da dove ergersi a maestro e una lunga nomenclatura di intellettuali passati al servizio di aziende offre l’opportunità di pensare a questo tipo di collaborazione (con incarichi che variano dalla comunicazione pubblicitaria alla gestione del personale, talvolta con incarichi dirigenziali) come a un rinnovato esercizio di militanza. Il discorso vale per alcune aziende: la Olivetti prima in assoluto, seguita a ruota dalla Pirelli, dall’Eni di Enrico Mattei, dall’Italsider di Cornigliano.

Estromessi dal gioco della politica – questo sarebbe stato il risultato della polemica tra Vittorini e Togliatti –, gli intellettuali hanno trovato nella fabbrica un luogo in cui ridiventare nuovamente parte attiva della società, sentirsi organici alla maniera che indicava Gramsci, vivendo il pericolo di compromettersi con il potere, stavolta economico e non più politico, e di tradire così il proprio statuto morale di uomini liberi, come specificava Julien Benda nel saggio La trahison des clercs (1927). Lavorare per l’industria ha rappresentato una forma anomala di collaborazione con il moderno, ma è stato pur sempre una sorta di esperimento che ha implicato una disponibilità a interagire e non un rifiuto, passando da un’entusiastica accettazione a una più problematica riflessione. Poniamo ad alfa e omega Sinisgalli e Ottieri: il primo estremamente convinto che la civiltà delle macchine fosse un processo insostituibile nella vicenda della nazione, il secondo invece fortemente legato all’industria ma con l’atteggiamento di chi – scrive Furio Colombo nella prefazione al tascabile di La linea gotica (2001) – «esplora con amore una chiesa, ma senza fede». Diamo per certo che il partito degli intellettuali sia entrato in una stagione di ripiego – di riflusso – in coincidenza con l’entrata in crisi dei processi di industrializzazione, avvenuti all’inizio degli anni Settanta con la prima crisi petrolifera. Diamo per certo anche che la fabbrica, dopo aver arruolato nei suoi ranghi parte della migliore intellighenzia italiana, abbia deciso di cambiare strategia e ripiegare su soluzioni meno onerose, dismettendo le iniziative che aveva fino a quel momento sostenuto: mecenatismo culturale, pubblicazioni periodiche e non, mostre. Ciò che trapela dalle scelte di Eco sul limitare degli anni Ottanta potrebbe assumere un valore esemplare. Il tramonto dell’intellettuale in funzione pubblica e il consequenziale ripiegarsi nella sfera privata hanno spostato l’attenzione di Eco verso il romanzo: un’esperienza premiata da enorme successo mediatico, i cui risultati però hanno mandato in crisi gran parte delle teoresi espresse nei decenni precedenti. La contraddizione si annida addirittura sotto il profilo narratologico: il libro di trama (e per giunta di genere giallistico) ribalta ciò che lo stesso Eco aveva teorizzato negli anni della neoavanguardia, quando parlava di “opera aperta” e distingueva una cultura di élite da una masscult. Il nome della rosa (1980) potrebbe essere letto come un tentativo di colmare, affidandosi al linguaggio narrativo, le debolezze che il linguaggio saggistico aveva evidenziato.

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