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Romano Penna - Siciliani
Nella serata di sabato 18 gennaio è scomparso don Romano Penna. Ho subito sentito il bisogno di riprendere fra le mani un suo saggio intitolato Quale immortalità? Tipologie di sopravvivenza e origini cristiane (San Paolo, Cinisello Balsamo 2017). Qui si può leggere: «[…] l’immortalità parte dalla convivenza con le cose più piccole e le relazioni più disparate di ogni giorno. Per il cristiano l’eternità e, quindi, l’immortalità non comincia dopo la morte fisica, ma qui e ora, nel pur precario presente storico». Da quando, nel lontano 1993, ho stabilito la mia residenza nella casa per presbiteri di Villa Assunta (sita in Roma sulla via Aurelia Antica), dove abitava già da tempo don Romano, ho avuto il privilegio di essere suo commensale e quindi quasi quotidiano interlocutore. Un’esperienza importante per la mia formazione teologica, che mi consente di accennare ad alcune peculiari caratteristiche della personalità di questo insigne studioso. Innanzitutto, la sua insaziabile curiosità (si sa è l’anima del sapere), che lo portava ad esempio a procurarsi e leggere anche di letteratura “profana”, acquistando, in formato rigorosamente cartaceo, i libri vincitori del premio Strega, di cui spesso abbiamo avuto modo di discutere. Quindi lo sforzo di tenere allenate le sinapsi con il ricorso all’enigmistica, con la quale amava trascorrere del tempo sottratto alla scrittura dei suoi testi. E, a tal proposito, il fatto che pensava scrivendo e scriveva pensando, insomma con la penna (nomen omen), come attesta la sua sterminata produzione bibliografica, che muove dai commentari ai testi neotestamentari, fra cui quello monumentale in tre volumi dedicato alla lettera ai Romani (EDB, Bologna I. 2004; II. 2006; III. 2008, poi in volume unico 2010 di oltre 1400 pagine), alla cristologia biblica e a svariate tematiche indagate comunque sempre e comunque a partire dal proto-cristianesimo.
Don Romano amava il plurale, come si può evincere dal titolo del libro sopra citato e dai ritratti originali del Gesù storico, cui ha dedicato due fondamentali volumi (San Paolo, Cinisello Balsamo 1997-1999). La consapevolezza della pluralità del cristianesimo delle origini e quindi della sua complessità, espressa ad esempio ne Le prime comunità cristiane. Persone, tempi, luoghi, forme, credenze, (Carocci, Roma 2011) veniva dettata dall’utilizzo rigoroso e mai scontato del metodo della critica storica, in una esegesi che assumeva il testo come punto di Archimede imprescindibile, ma lo interpretava alla luce dello sviluppo diacronico, che conduce alla storia della redazione, includente quella della tradizione e delle forme. Abbiamo perciò insieme salutato con grande soddisfazione il documento della Pontificia Commissione Biblica del 1993 sull’interpretazione della Bibbia nella Chiesa, che appunto assumeva il metodo storico critico come fondamentale per lo studio esegetico e direi per la stessa teologia.
Non posso dimenticare la grande fatica e le opposizioni che il biblista ha dovuto affrontare perché tale metodo si affermasse nella Università del Papa (la Lateranense) e le aspre polemiche, ad esempio, con il collega Francesco Spatafora, che definiva la “nuova esegesi” come “il trionfo del modernismo”. E ciò nel precedente contesto della più ampia polemica fra alcuni docenti della nostra Università e i gesuiti del Pontificio Istituto Biblico, alla quale aveva inteso e fortemente voluto porre fine, con un suo duro intervento papa Paolo VI: «la sua (della PUL) affermazione nel concerto dei grandi, celebri e benemeriti istituti romani di alta cultura ecclesiastica sia quella della sincera riconoscenza, della fraterna collaborazione, della leale emulazione, della mutua riverenza e dell’amica concordia, non mai d’una gelosa concorrenza, o d’una fastidiosa polemica; non mai!» (1963). In ogni caso il lavoro di Penna ha contribuito notevolmente a rendere digeribile il metodo storico-critico e le sue risultanze in ambito ecclesiastico-cattolico e non solo nella Università romana, bensì anche nella curia, essendo stato nominato consultore dell’allora Congregazione per la Dottrina della fede dal 1994, allora presieduta dal cardinale Joseph Ratzinger.
I poli fondamentali intorno ai quali ha ruotato tutta la sua ricerca, consegnata oltre che nelle opere squisitamente scientifiche, anche nei lavori di alta divulgazione che ha voluto regalare al più vasto pubblico, sono stati Gesù di Nazaret e Paolo di Tarso. Nella pluralità delle forme cristiane, attraverso cui si esprimeva la chiesa delle origini e in particolare in rapporto alla dinamica, a tratti conflittuale, fra giudeocristianesimo e paolinismo, Penna non ha esitato a schierarsi con l’apostolo dei gentili e la tradizione che da lui ha preso forma. Ma non ha mancato di mettere in guardia dall’affermazione “fortemente impropria” avanzata prima da F. Nietzsche e quindi da W. Wrede, secondo cui l’apostolo Paolo sarebbe il secondo (se non il vero) fondatore del cristianesimo. Una tesi erronea e fuorviante che spesso ritroviamo ripetuta in ambiente laicista: «[… Paolo] avrebbe predicato un cristianesimo suo, irrimediabilmente grecizzato, dimostrandosi, specie in rapporto al giudaismo, come “teologo del malinteso”» (così in Paolo di Tarso. Un cristianesimo possibile, San Paolo, Cinisello Balsamo 1992).
L’identità del Gesù storico è stata per don Romano una vera e propria ossessione. E il tema incrocia una problematica cristologica fondamentale, oggi messa alquanto in ombra nella teologia dogmatica: quella della “coscienza di Gesù”. Illuminante a tal proposito quanto il biblista scriveva a proposito dei miracoli di Gesù: «essi manifestano perlomeno la coscienza di Gesù, ciò che egli pensava di sé compiendo simili atti […]. In buona sostanza possiamo dire che la valenza cristologica dei miracoli si scorge solo ponendosi dal punto di vista di chi li compie, non di chi li osserva. Solo in questo senso essi rivelano ciò che Gesù pensa di se stesso. E dalle risposte, sia alla delegazione del Battista, sia nella controversia su Beelzebul, ricaviamo la doppia dimensione della sua coscienza: di operare a compimento delle Scritture […], e soprattutto di agire come strumento dell’irruzione escatologica del regno di Dio, al cui servizio sa di essere posto». E si tratta di un tratto di originalità gesuana in quanto «queste componenti mancano tanto negli antichi profeti Elia ed Eliseo quanto nei taumaturghi esorcisti del tempo operanti in Israele». E per quanto riguarda Gesù i gesti prodigiosi non sono tanto delle prove (estrinseche) della venuta del regno quanto piuttosto uno dei modi con cui il regno stesso già viene! «I miracoli di Gesù, pertanto, parlano la stessa lingua della sua proclamazione verbale: il regno di Dio è qui» (I ritratti originali di Gesù. Gli inizi).
E tuttavia la comprensione profonda di tale identità non si nutre prevalentemente dei gesti-miracoli operati dal Signore. In un testo molto importante intitolato Il DNA del cristianesimo. L’identità cristiana allo stato nascente (San Paolo, Cinisello Balsamo 2004), leggiamo: «Ricordo di aver letto anni fa in Baviera, sotto un crocifisso con tettoia posto al bivio di un sentiero di montagna e di fronte a un paesaggio incantevole questa quartina in rima baciata: «Grande è Dio nella natura, / dappertutto c’è la sua impronta. / Vuoi vederlo ancora più grande? / Fermati davanti alla croce!». E questo perché l’identità del cristiano è chiamata a misurarsi con quello che il Penna ha chiamato in un suo prezioso volume Amore sconfinato. Il Nuovo Testamento sul suo sfondo greco ed ebraico, (San Paolo, Cinisello Balsamo 2019), «quello richiesto al cristiano è non tanto un amore di ritorno, ma un amore che si dilata come avviene per una cascata: da una scaturigine verticale esso ricade verso il basso e si allarga a dismisura in direzione orizzontale». A Romano Penna la gratitudine della Chiesa, del mondo accademico e dei numerosi allievi che ha formato col suo insigne magistero.