mercoledì 7 maggio 2025
I campanili sono metafore di ciò che siamo chiamati a costruire dentro di noi. Perché non è la pietra che salva, ma la capacità di trasformare il disorientamento in una nuova forma di radicamento
La basilica di San Frediano, a Lucca

La basilica di San Frediano, a Lucca - Kateryna Senkevych / Unsplash

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C’è un episodio raccontato da Ernesto De Martino in La fine del mondo che colpisce per la sua apparente semplicità. Durante un viaggio in Calabria, lo studioso si imbatté in un pastore, che con qualche esitazione accettò di salire in macchina per indicargli la strada. Ma appena il campanile di Marcellinara, il suo paese, scomparve all’orizzonte, fu assalito da un’inquietudine improvvisa. Quel campanile, per lui, non era solo un elemento del paesaggio, ma un riferimento identitario.

Può succedere che, ascoltando storie come questa, ci lasciamo toccare senza sentirci davvero coinvolti. Le consideriamo con una benevolenza che nasconde distanza, come se parlassero di un mondo superato. Ma proprio questo atteggiamento ci impedisce di coglierne la portata. Quando il campanile scompare, il pastore non perde solo un segno nello spazio: viene meno l’intelaiatura invisibile che teneva insieme il suo rapporto con il luogo, con il tempo, con se stesso. Quel segnale, apparentemente esterno, custodiva una mappa interiore. E oggi, in un presente attraversato da mutamenti incessanti, anche noi ci troviamo a fare i conti con perdite analoghe. Svaporano i linguaggi condivisi, si allentano le abitudini, si spezzano i legami che orientavano la nostra esperienza. Ogni volta che uno di questi elementi si dissolve, qualcosa nella nostra identità si incrina. Il disagio del pastore non appartiene a un’epoca remota: ci riguarda da vicino. Non racconta un mondo che non c’è più, ma qualcosa che sta accadendo ora, dentro di noi.

La nostra epoca è segnata da una crescente instabilità. Le innovazioni legate all’intelligenza artificiale, alle biotecnologie e alla digitalizzazione non si limitano a trasformare l’ambiente tecnico, ma agiscono in profondità su ciò che intendiamo per umano. Il corpo non è più un fondamento evidente, l’identità si frammenta, il tempo perde linearità. Il linguaggio si riduce a codici immediati e semplificati, compromettendo la capacità di articolare esperienze complesse. Anche le relazioni umane si fanno fragili, spesso percepite come provvisorie, quasi che la durata fosse diventata un ostacolo invece che un valore.

A differenza del pastore di De Martino, noi non abbiamo un campanile a cui tornare. Ma forse è proprio questa mancanza a offrirci una possibilità: inventare nuovi punti d’equilibrio. Simone Weil, nei suoi Quaderni, lo dice con una sobrietà che colpisce: «La grandezza dell’uomo consiste sempre nel ricreare la sua vita. Ricreare ciò che gli è dato. Forgiare anche ciò che subisce». In queste parole cogliamo un invito severo: non adattarsi, ma ripensare. Stare nel cambiamento senza soccombere, prendere su di sé il compito di riformulare — con umiltà e intelligenza — che cosa voglia dire, oggi, essere umani.

Con voce limpida e inflessibile, la filosofa francese ci ricorda che l’uomo non è mai una figura immobile, scolpita una volta per tutte. Al contrario, è un essere che continuamente costruisce senso, anche quando il mondo attorno sembra sottrarglielo.

In questa prospettiva, abitare consapevolmente il presente richiede nuove strategie di radicamento che possono essere accennate secondo tre direttrici fondamentali: le relazioni profonde, la cura per il tempo, il rispetto per le parole.

La prima direttrice concerne i legami umani, che non sono contratti da rescindere, ma radici da coltivare. Mentre tutto accelera, la vera rivoluzione consiste nel rallentare lo sguardo sull’altro, nell’ostinarsi a riconoscere un volto dove la fretta vede solo un’icona. Concretamente questo significa fare spazio al silenzio condiviso, all’attesa, persino all’imperfezione che ci rende autentici. Non è utopia sentimentale, ma saggezza incarnata: senza l’altro che ci riconosce, che ci sopporta, che talvolta ci contraddice, il nostro stesso senso di realtà si dissolve. Preservare la profondità nelle relazioni significa, in ultima analisi, resistere all’illusione che la vita sia una questione di prestazioni invece che di presenza, di accumulo invece che di incontro.

La seconda direttrice riguarda il tempo. Viviamo schiacciati dall’urgenza, come se rallentare fosse un lusso che non possiamo permetterci. Ma forse è proprio lì, nella lentezza, che si cela la possibilità di comprendere meglio ciò che ci sta accadendo. Fermarsi non è un segno di debolezza o rinuncia: è un atto di lucidità. Solo sottraendoci, almeno in parte, al ritmo imposto, possiamo riconoscere i contorni del cambiamento e renderlo esperienza abitabile, non puro evento.

Infine, la terza direttrice implica il rispetto per le parole, campo di battaglia quotidiano dove possiamo subito iniziare a cambiare il mondo. Ogni termine che scegliamo è un piccolo atto di creazione o di distruzione. Quando parliamo con precisione, facciamo esistere sfumature che altrimenti resterebbero invisibili; quando usiamo parole logore, cancelliamo pezzi di realtà. Non è questione di eloquenza o erudizione: è una pratica di resistenza. Resistenza contro l’impoverimento del pensiero, contro il conforto delle frasi preconfezionate che non chiedono nulla a chi le pronuncia e nulla lasciano a chi le ascolta. Il dialogo autentico diventa così non solo un momento di scambio, ma un laboratorio concreto di trasformazione. Mentre altri cambiamenti richiedono tempo e risorse fuori dalla portata di molti, le parole sono una materia prima democratica: sono a disposizione di tutti, qui e ora.

Dunque, “forgiare ciò che subiamo” non è solo una bella formula: è un gesto, un lavoro, un’esercitazione quotidiana. È la scelta di non lasciarsi travolgere, ma di fare spazio. Dare forma. E forse non è un caso che il pastore smarrito di De Martino avesse perso di vista proprio un campanile. Era quello, il suo segnale. Un elemento che dava misura al tempo, orientava il pensiero, legava passato e futuro in un punto visibile.

I campanili, con le loro guglie protese verso l’infinito, non sono semplicemente segni nel paesaggio, ma metafore viventi di ciò che siamo chiamati a costruire dentro di noi. Perché alla fine, non è la pietra che salva, ma la capacità di trasformare il disorientamento in una nuova forma di radicamento. Come il suono delle campane che, pur disperso nell’aria, continua a risuonare dentro chi lo ascolta, così il senso dell’umano persiste anche quando tutto sembra dissolversi. In questo fragile equilibrio tra memoria e trasformazione, tra fedeltà e rinnovamento, si nasconde forse il segreto di un’umanità che non teme di guardare oltre l’orizzonte, perché sa che anche nell’ignoto può trovare casa.

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