venerdì 27 ottobre 2023
Al Museo Bozar si è aperta la retrospettiva sul belga che fu tra i fondatori del nuovo stile che si diffuse in tutta Europa. Una carriera che si mosse tra colonialismo e massoneria
Una foto d’epoca di un fronte della Maison du Peuple costruita da Victor Horta a Bruxelles nel 1899

Una foto d’epoca di un fronte della Maison du Peuple costruita da Victor Horta a Bruxelles nel 1899 - Museo Horta

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In una scena europea che assiste nei decenni di fine Ottocento allo sviluppo velocissimo della società industriale, figure come William Morris e John Ruskin vogliono salvaguardare il legame fra arte e manualità, fra produzione e artigianato. L’estetica tende a farsi più sinuosa ed elegante, laddove la bellezza rispecchia un ideale femminile che non è più quello della classicità, e si stempera in una forma più morbida e portatrice di valori decorativi, che di fatto sono un prodotto della società borghese che domina Francia e Inghilterra, Mitteleuropa, Belgio e Fiandre. In questa fase, l’Esposizione universale del 1893 a Chicago rivela un mondo diverso, dove i grattacieli e i mattatoi che lavorano i maiali mostrano in anticipo quello che sarà la catena di montaggio fordista. In quello stesso anno, a Bruxelles, Victor Horta disegna l’Hotel Tassel dove cominciano ad apparire le linee sinuose e le strutture in ferro e vetro che poi diventeranno un segno dello stile Art Nouveau – la cui denominazione cambia a seconda delle lingue e dei paesi europei: Modern Style, Jugendstil, Sezessionstil, Liberty e altre ancora –. Horta, a differenza di altri architetti abili nel dare a edifici di concezione anonima una apparenza piacevole grazie a un trattamento decorativo, una finta eleganza di superficie, era un eccellente ingegnere e un architetto capace di pensare in modo nuovo.

Victor Horta, disegno del Padiglione del Congo all’Expò di Parigi del 1900

Victor Horta, disegno del Padiglione del Congo all’Expò di Parigi del 1900 - Museo Horta

Lo si comprende al Museo Bozar, dove da qualche giorno è allestita una mostra sull’architetto belga che indaga, attraverso il riferimento ad alcuni edifici da lui realizzati, «la grammatica dell’Art Nouveau» ("La grammaire de l’Art Nouveau", fino al 14 gennaio, curata dal conservatore del Museo Horta Benjamin Zurstrassen, e dal teorico dell’architettura Iwan Strauven). Dal momento che le principali architetture di Horta si trovano a Bruxelles, dalla Maison du Peuple, punto di arrivo nella sua ricerca di uno stile adatto alla modernità, al Palazzo delle Belle Arti (il Bozar stesso che ospita la mostra), si può aggiungere con profitto anche la visita alla casa-studio che l’architetto costruì in Rue Américaine, aperta per lo più al pomeriggio per poche ore. Il catalogo è un ottimo strumento per approfondire il lavoro di questo grande architetto che non aveva una visione dell’arte “facile”, cioè non era incline all’eleganza come un di più di ricerca estetica. Le sue opere offrono una duplice chiave di lettura: sono solide, ma anche leggere, il vetro e il ferro uniti alla pietra (in mostra è esposto anche un campionario delle diverse materie) rendono agli edifici una vibrante spazialità senza cadere nel lezioso, grazie a una ricerca attentissima sulle fonti d’illuminazione, come nell’Hotel Aubecq. C’è anche la dialettica fra interno ed esterno che anticipa le ricerche di Le Corbusier e del modernismo, come nei Magazzini Waucquez; e una esibizione, senza infingimenti, delle materie e delle strutture dell’edificio, un principio poi caro all’architettura razionale, che appunto parlava di sincerità e di rifiuto dell’ornamento (la Maison du Peuple).

Horta incarna un pensiero che sarà molto presente nella riflessione dello storico dell’arte Henri Focillon, secondo cui materie e forme s’incontrano in una reciproca vocazione, così che «nell’immaginazione di alcuni, la nuova tecnica si rivela ricca di possibilità ancora vergini nel regno della bellezza ». È su questa relazione che lo spazio ideato da Horta trova anche la sua vitalità interna e la capacità di smuovere la percezione di chi vi si trova immerso. Si potrebbe anche dire che Horta usa certe linee dinamiche e sinuose (le scale diventano un esempio del pensiero che Bruno Zevi riconosceva in Horta come anticipazione di quella che definì “architettura organica”, il cui massimo esponente era per lo storico Fl.Ll. Wright). A ciascuna delle questioni qui ricordate la mostra dedica una sala con fotografie, maquette, disegni e altre testimonianze. Ci si deve accontentare di questo, quando è ben noto che le mostre d’architettura soffrono la riduzione tipica degli strumenti di rappresentazione, ma nel caso specifico, come già ricordato, il Bozar diventa una sorta di spazio suggestivo da cui partire per l’itinerario dentro Bruxelles alla ricerca delle opere di Horta. I curatori della rassegna non si nascondono dietro un dito. Horta è uno degli architetti del capitalismo industriale belga, uno dei suoi capolavori, l’Hotel Solvay, gli venne commissionato da Ernest Solvay, un chimico che brevettando un processo della Fabbricazione industriale del carbonato di sodio a partire da sale marino, dall’ammoniaca e dall’acido carbonico divenne ricchissimo. Il Belgio, all’epoca, era un paese coloniale che viveva dello sfruttamento consentito dagli accordi stabiliti con quello che, mettendosi la classica foglia di fico, veniva chiamato Stato indipendente del Congo; legame “imperiale” che, come scrive nel catalogo Debora Silverman, doveva garantire al Belgio lo status di Potenza mondiale fondata sul boom economico, sullo sviluppo in grande dell’architettura e, appunto, sullo slancio imperialista. Il successo raggiunge Horta quando entra a far parte della Loggia degli Amici Filantropi, massoneria mossa da visioni radicali e dunque progressiste che si pensa come “movimento civilizzatore” (vogliamo dire delle tante missioni di esportazione della democrazia degli ultimi decenni che diventano sfruttamento di terre ricche di materie prime?). Questi rapporti gli porteranno, per esempio, la commissione della Maison du Peuple promossa dai vertici del partito operaista belga. Dentro la Loggia aveva incontrato uno dei suoi committenti più importanti: Edmond von Eetvelde, che all’epoca era segretario di Stato agli Affari Esteri e del dipartimento dell’Interno dello Stato indipendente del Congo.

Si può capire, da questi cenni, quanto sia stata incentivata la carriera di Horta: le sue capacità indubbie e la sua abilità nel tessere relazioni come quelle con la massoneria, di cui Silverman ricorda il forte anticlericalismo, ha suscitato in effetti opinioni contrastanti nella critica. Per Eetvelde Horta realizzò nell’ultimo lustro dell’Ottocento l’Hotel omonimo, e da questa collaborazione, grazie appunto alle frequentazioni massoniche, ebbe anche la commissione del progetto per il Padiglione del Congo all’Esposizione universale di Parigi del 1900. Questa vicenda, oltre all’interesse specifico dell’impresa (poi non realizzata), è accresciuta in mostra da alcuni disegni di recente scoperta che rendono meglio comprensibile il gigantesco progetto in vetro e ferro ideato da Horta, disegni che gli organizzatori hanno tradotto anche in una maquette. Horta coglie il vento dei tempi, cioè di fine Ottocento, quando la politica belga di sfruttamento delle risorse congolesi era molto attiva. All’epoca stava già progettando la Maison du Peuple, dove tutte le esperienze di Horta, fin dalla sua formazione, si fondono in un capolavoro di qualità urbanistica e di apertura sui nuovi orizzonti dello spazio architettonico davvero anticipatore del modernismo. Nel disegno del Padiglione, le cui enormi dimensioni forse furono una delle ragioni per cui Leopoldo II rinunciò a costruirlo, temendo che la sua soverchiante monumentalità costituisse un argomento di critica politica da parte delle aree più progressiste, che già avevano un giudizio controverso sull’impresa congolese; in quel progetto, ferro e vetro si gonfiano fino a un’ampiezza che ricorda sia le serre reali di Laeken progettate da Alphonse Balat, col quale Horta aveva cominciato le sue esperienze, sia il gigantismo neoclassico del Palazzo di Giustizia, opera di Joseph Poelaert. La vicenda finì nel nulla, soprattutto per le ambizioni del plenipotenziario Eetvelde che nel 1897 aveva chiamato a collaborare anche architetti come Henry van de Velde. Horta giocava sul crinale di un’ambiguità nazionale: rappresentava il Congo, ma anche il Belgio all’Expò di Parigi. Dunque, pensava in grande. Ancora Silverman nota che le planimetrie suggeriscono la forma di un elefante, mentre l’interno sembra quello di un’enorme caverna, punteggiata di colonne, tuttavia aperta al passaggio della luce grazie all’impiego di ferro e vetro, senza alcuna caduta nell’ornamento. La studiosa, considerando i vari passaggi della vicenda, ritiene che Horta non condividesse le logiche politiche imperiali, anzi che fosse convinto, come molti belgi, che lo Stato indipendente del Congo, anziché essere diretto da Bruxelles – dove si sosteneva ipocritamente che «non era una colonia» – fosse dotato di un proprio governo e di un gabinetto. Nonostante questo “liberalismo” la grandeur hortiana generò uno spazio “vuoto”. Camille Paget, in un altro saggio, conclude notando che se, nel 1900, il Congo non partecipò all’Expo del 1900, il Belgio invece nel 1925 commissionò a Horta un padiglione nazionale per l’Exposition Internationale des Arts décoratifs et industriels moderne di Parigi. Ugualmente, il Congo non parteciperà, nel 1931, all’Exposition coloniale internationale di Parigi. Andando a Bruxelles, dove ha sede l’Unione Europea e vedendo gli edifici di Horta, è il caso di considerare la loro bellezza con uno sguardo strabico ovvero come un monito verso le false campagne per esportare la democrazia in paesi a lungo sotto il giogo coloniale dell’Occidente.


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