venerdì 4 agosto 2023
Negli allenamenti inventava numeri da circo: poteva decidere di palleggiare solo di spalla, solo di tacco, oppure calciare per ore il pallone in cielo e poi ordinargli di cadere sul collo del piede..
Il murales dedicato a Diego Armando Maradona nei vicoli dei quartieri Spagnoli di Napoli

Il murales dedicato a Diego Armando Maradona nei vicoli dei quartieri Spagnoli di Napoli - ANSA

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Maradona, come i grandi poeti, non aveva il quotidiano e trasformava la noia in poesia, al pari di Raymond Carver che aveva il quotidiano ma lo capovolgeva, Robert Frost che aveva la notte – nel modo del Great Gatsby –, e Charles Wright: liberarsi, espiare e sparire. Solo assistere alle prove di Igor Stravinsky potrebbe essere accostato a veder Diego Armando Maradona allenarsi. Ora che ogni minuto di quegli allenamenti è instagrammato, possiamo cantare l’insieme e non il frammento, perché l’opera è il totale, avrebbe detto Totò, e quindi un bimbo che gioca col pallone, sempre in modi diversi. Maradona in allenamento era il doppio della bellezza del gioco, perché autorizzato ad uscire dal tempo continuamente senza dover rientrare come in campo e ogni tanto umanizzarsi dopo aver disumanizzato uomini, schemi, idee, campi. Gli allenamenti di Maradona non conoscono l’ordinario, la loro trama è solo stupore, superati unicamente dalle partite infinite del Diego invisibile – borgesianamente ancora più reale – a Villa Fiorito: il mio giocare qua è stato tutto un partire, liberarmi e sparire. Potrebbe dire, per le espiazioni c’è tempo, cominciarono a sedici anni e un minuto, palleggiando, claro. Il resto è storia, ricordi, glorissima, e tante lacrime, ma in allenamento è solo divertimento, per lui che gioca e per chi lo guarda giocare.

L’umanità si può dividere in chi non ha visto Maradona giocare – il povero Daniel Pennac, per poi farci un brutto documentario tutto in apnea per recuperare quello che non si può recuperare e che si capisce guardando Maradona con un pallone –; chi l’ha visto giocare; chi l’ha visto allenarsi. Il gruppo ristretto di questi ultimi mi vede fortunato possessore del biglietto di una singolarissima riffa che porta a vincere una nostalgia leonesca pari solo a quella che prova in C’era una volta il West Claudia Cardinale / Jill McBain capendo che Charles Bronson / Armonica non tornerà mai più, come quel mondo che sta lasciando, per via della nuova civiltà che appare in locomotiva, e che la sua risposta – «un giorno o l’altro» – fa parte delle promesse che l’uomo si fa per superare il quotidiano, la noia e soprattutto la morte. Quindi, un allenamento di Maradona. Tutto promesse, che poi verranno mantenute, però. A lungo le uniche promesse mantenute a Napoli, dai tempi di Benedetto Croce e Renato Caccioppoli. Negli allenamenti Maradona manteneva un filo diretto con la fantasia che lo animava, inventandosi numeri da circo calcistico. Andare a guardarlo non era come guardare una partita, perché nella partita aveva comunque un codice, in allenamento no.

Poteva decidere di centrare dieci volte di seguito il palo destro, o quello sinistro, o la traversa, o di calciare per una eternità dal corner mettendola all’incrocio, oppure di non alzarsi da terra e palleggiare, oppure di tirare in porta solo rovesciando, o di usare la porta come la buca di un biliardo e di lasciare il pallone sulla linea e via così, una costellazione di improvvisa meraviglia col pallone. Correva, fletteva, saltellava, ubbidiva persino a Bianchi e Bigon, e prima a Marchesi, ma voleva parlare col pallone. Poi c’erano le punizioni, un capitolo a parte, perché tutti pensano che Maradona non si esercitasse, invece no, si esercitava, moltissimo con le punizioni, e quelle in allenamento dicevano che oltre il genio, c’era la costanza, e vederlo mandare il pallone sempre nello stesso punto – alle spalle del portiere – faceva pensare che tutto fosse facile, come se quei gol avvenissero perché c’era qualcuno a guardarli, non era così, avvenivano perché il pallone era felice di ubbidire ai suoi piedi.

E il suo repertorio di gioco era sconfinato: poteva decidere di palleggiare solo di spalla, solo di tacco, oppure calciare per ore il pallone in cielo e poi ordinargli di cadere sul collo del suo piede, arrestandosi, questa pratica stupì molto Gary Lineker che poi l’ha raccontato alla BBC, di come lui e mezza Inghilterra provassero, senza riuscirci, il maradonismo. Ovvio, la palla, ma bisognerebbe dire tutto quello che è tondo e rimbalza, anzi no, Maradona palleggiò con la carta a Siviglia andando a battere un calcio d’angolo, con le borracce dei tennisti che andavano a salutarlo, le chiavi e molto altro ancora, quindi bisognerebbe dire che tutto quello che cadendo dal cielo o alzandosi dalla terra e che entrava in contatto con i piedi, anzi il corpo, di Maradona: era palleggiabile e a lungo. Potete capire che cosa erano quegli allenamenti e come Pennac ha sprecato la sua vita, scoprendo Maradona solo a sessant’anni. Una sola volta gli allenamenti di Maradona incontrarono la normalità dello stadio, uscendo dall’informalità del campo d’allenamento, successe a Monaco di Baviera, nel 1989, semifinale di Coppa Uefa, fornendo una scena a una colonna sonora che intratteneva il pubblico in attesa della partita. Divenne un film di Quentin Tarantino, riscaldandosi prima della partita, mettendosi a palleggiare e a ballare, mentre gli altoparlanti dell’Olympiastadion München mandavano Life Is Life degli Opus, un gruppo austriaco, consegnandoli alla storia del Tubo per sempre, regalando loro un video musicale unico. Sembrava una lezione di ginnastica di Jane Fonda e allo stesso tempo Charlie Chaplin che gioca col mappamondo, il pallone diventa spalla, con il dettaglio che salta agli occhi: i lacci sciolti degli scarpini. Maradona portava la sua lunga strada da Villa Fiorito a Napoli sotto gli occhi di Jupp Heynckes, che allenava il Bayern Monaco, mostrandogli le sue intuizioni pallonare e le dilatava, modulandole su cronaca da realismo magico.

A vincere è l’idea generale che Maradona ha del pallone, una protesi distaccata, che con buona approssimazione farà sempre quello che lui desidera. Seguiva il comandamento di Muhammad Ali: ballava, col pallone, senza farlo cascare, smontando e rimontando sé stesso, i suoi numeri e la sua fantasia, senza impegno, senza smettere di ridere, irrompendo nella seriosità di una semifinale con l’allegria. Basta rivedere la faccia di Ciro Ferrara – emblema della normalità che gli stava intorno in quel Napoli – per capire quanto spavento, tensione, tormento ci fosse. Era un lavoro di psiche che associato al gioco avrebbe fatto impazzire Freud, un intermezzo per dire che poteva controllare tutto, qualunque traiettoria, caduta, angolo. Maradona mostrava di essere intonato al campo, al mondo, trascinava e rassicurava, senza perdere il ritmo. Spalla, coscia, piede, spalla, coscia, piede, tacco, il massimo del livello ludico in sequenza poetica, un richiamo continuo al ritmo che diventa doppio e circolare – dalla musica degli Opus al corpo di Maradona – spalla, coscia, piede, spalla, coscia, piede, testa, consegnando l’azione alla canzone pop-dance, prima di mettersi a dissipare, palleggiando solo di spalla, poi solo di coscia, poi tenendo fermo il pallone sopra i suoi riccioli. Ed era solo l’avanzo, quello che non avrebbe fatto in partita, il suo sigillo, annullava la normalità con la poesia.

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