giovedì 23 dicembre 2010
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Dieci anni fa, presso l’ospeda­le Regina Apostolorum di Al­bano, moriva padre Filiber­to Guala, monaco trappista. Era il 24 dicembre del 2000, aveva 93 anni. Un pezzo di storia d’Italia che se ne andava. Si, perché padre Filiberto, prima di approdare alla trappa, è sta­to un uomo straordinario, pieno di risorse, capacità, iniziative messe a servizio della ricostruzione del no­stro Paese, subito dopo la guerra. Na­to a Torino nel 1907 e laureatosi in In­gegneria al Politecnico nel 1929, en­trò in contatto nel 1938 con don O­rione, di cui divenne grande amico; l’incontro con questo santo segnò profondamente la sua vita. Ma suoi amici furono anche La Pira, Dosset­ti, Lazzati... Giovane fucino, ebbe co­me direttore spirituale il futuro pa­pa Paolo VI, al quale confidò la sua intenzione di diventare sacerdote; Montini lo dissuase, dicendogli: «Lei deve essere un buon ingegnere e non un prete. La Chiesa ha bisogno di lai­ci che abbiano delle posizioni de­terminanti nella struttura del Pae­se».Nel 1954 approda alla Rai, dove re­sta due anni con la carica di ammi­nistratore delegato. Del periodo tra­scorso in Rai dirà bonariamente: «Ancora oggi sconto quei due anni. Arrivano qui giornalisti, mi fanno domande sulla televisione e poi ve­do sui giornali titoli tipo 'Dal pote­re alla trappa', come se io in un’a­zienda di grandi proporzioni come la Rai contassi qualcosa». Aldo Gras­so, critico televisivo e docente di Sto­ria della radio e della televisione al­la Cattolica di Milano, riconosce che il tempo che Guala ha passato in Rai è stato «un regno di modesta durata ma di grande rilievo, caratterizzato dall’assunzione di una task force di giovani laureati, per lo più di estra­zione cattolica, ma anche di diversa provenienza, purché meritevoli sul piano culturale. Guala aveva in men­te che la tv italiana dovesse assume­re uno stile che rispecchias­se, a livello popolare di co­municazione di massa, la tradizione storica e cultura­le della ricca eredità cristia­na. Era convinto della supe­riorità delle idee sulle istitu­zioni e in nome di una salda matrice religiosa, voleva u­sare il video per 'migliora­re' gli italiani. Se la Rai nel corso degli anni ha espresso una po­litica editoriale, una capacità inven­tiva, una vivacità produttiva dob­biamo sempre cercare il punto di partenza nel reclutamento di quei neolaureati (Furio Colombo, Um­berto Eco, Gianni Vattimo, Enrico Vaime, Giovanni Salvi, Fabiano Fa­biani, Mario Carpitella, Folco Porti­nari) e nel loro modo di pensare la te­levisione».Questi giovani intellettuali, in segui­to etichettati con lo scherzoso so­prannome di 'corsari', in quanto de­stinati a seguire, dopo la selezione del concorso, un corso di formazio­ne diretto da Pier Emilio Gennarini, avrebbero dovuto, nelle intenzioni di Guala, 'svecchiare' la Rai, anco­ra troppo legata a personalità pro­venienti dall’Eiar. Eppure nono­stante queste idee innovative Guala viene presto spodestato, in maniera ben poco civile. Guala si dimise dal­la Rai perché la vecchia guardia del­l’Eiar non condivideva la sua politi­ca culturale: di dare ai programmi un livello più alto e insieme più ra­dicato nella cultura popolare. Gian­franco Bettetini, regista, sceneggia­tore e per molti anni direttore dell’i­stituto di Scienze delle comunica­zioni e dello spettacolo alla Cattolica di Milano, faceva parte di quei 'corsari'e ricorda Guala con stima e rammarico: «Era un uomo eccezio­nale, molto determinato, che pur­troppo fu sconfitto da forze molte più forti di lui, fra cui anche la mas­soneria; così fu emarginato e tutti i suoi piani bloccati. La sua idea era di realizzare una Rai seria, capace di fa­re un’informazione corretta. Sapeva dove voleva arrivare. Tutte le accuse di essere un 'bacchettone', o di aver fatto un 'decalogo' per censurare gli spettacoli, non sono assolutamente vere».Il giornalista e scrittore Sergio Zavo­li, attuale presidente della Commis­sione di vigilanza della Rai, eviden­zia che «Guala concepiva il medium elettronico come un vero servizio pubblico. Si pronunciò per un’etica fondata su una preliminare, intran­sigente difesa di valori riconoscibili nella persona umana, divenendo presto un personaggio al di fuori di un processo storico che stava chie­dendo anche ai credenti, senza di­stinzioni, di dare una più aggiorna­ta interpretazione alla loro militan­za etico-politica. Di Guala si vorreb­be conservare la memoria di un co­dice deontologico applicato in forme rigorose, cioè con modalità che han­no finito essere il sigillo del suo sen­tire, insieme, civile e interiore. Da al­lora molte cose sono cambiate. Alla televisione, oggi, nessuno chiede­rebbe più di praticare una sorta di pedagogia virtuosa».Pochi anni dopo la sua avventura in Rai, nel 1960, a cinquantatré anni di età, decise di farsi frate trappista, en­trando nel monastero delle Frattoc­chie, e nel 1967 fu ordinato sacerdo­te. Questa volta Montini aveva be­nedetto la sua scelta, scrivendogli: «Troppo presto per lasciare quelle responsabilità a cui ti eri consacra­to... Però tutti i nostri amici dicono che sei pronto per questa scelta e an­che io mi arrendo». Nel 1972 padre Filiberto ristrutturò il monastero del­la Madonna della Fiducia a Moroz­zo (Cuneo), ove poi visse come un e­remita sino al 1984, quando ormai anziano fu costretto a fare ritorno al monastero per problemi di salute. L’abbiamo incontrato più volte in quegli anni, padre Filiberto, nel suo monastero, sempre accogliente, di­sponibile. Arrivava trafelato, con la gioia negli occhi. La sua scelta con­templativa non fu presa per delu­sione, come qualcuno ha insinuato. Non aveva motivo di 'fuggire', sem­plicemente seguiva la sua vocazione. Aveva vissuto tutti gli impegni sociali come un vero servizio, contribuen­do alla ripresa del Paese. Confidava: «Sto sperimentando che, col decli­nare delle forze, cresce il dono del ri­cordo, del rivivere esperienze e in­contri che sia arriva a penetrare più profondamente». Ci parlò dell’inte­resse che gli suscitò, nel 1957, l’in­chiesta che Sergio Zavoli aveva rea­lizzato in un convento di clausura e il suo dialogo con una monaca: ave­va avuto, chiara come mai prima, la percezione della in componibilità tra cristianesimo e modernità. «Quan­do mi ricevette – conferma Zavoli – nel convento trappista delle Frat­tocchie, alla periferia di Roma, fece molte domande sulla clausura car­melitana in cui avevo registrato il do­cumentario, e mostrò di ricordare quasi a memoria le testimonianze raccolte grazie soprattutto alla sin­golare spiritualità di suor Maria Te­resa dell’Eucarestia, sottopriora del convento».Fino alla fine padre Filiberto, un tem­po ingegnere, è stato un 'imprendi­tore', non solo nella società ma an­che in monastero. Già novantenne continuava a progettare: «Sono in un momento che potrebbe dare una svolta alla mia attività di...vecchio novantenne. Il Signore sta cambian­do il modello delle persone che ven­gono a confidarsi. Mi rendo conto che c’è più miseria di quella che co­noscevo e quindi mi sento chiama­to a dedicare più tempo a questi 'mi­seri' e aiutare i miei amici a soste­nere questo 'mondo' con la loro preghiera».
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