martedì 16 agosto 2011
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Lo scorso marzo, in California, ho letto in bozze, tutto d’un fiato, un libro che mi ha colpito moltissimo, imparando molte cose, commovendomi, confrontando idee e sensazioni. Ho amato i personaggi che mi sfilavano davanti, condiviso le loro angoscianti esperienze e la loro risoluta volontà di testimoniare. È una storia di armeni e di ebrei. L’autore ha cercato e raccolto le parole degli ebrei che hanno seguito in prima persona il procedere del genocidio armeno, vivendo da vicino quei mesi e quegli anni terribili, spesso in posizioni privilegiate di osservazione. Del più famoso, l’ambasciatore americano a Costantinopoli, Henry Morgenthau, nel gennaio scorso è stato tradotto in Italia, per l’editrice Guerini, il Diario 1913-1916. Ma ce ne sono tanti altri. Pro Armenia. Jewish Responses to the Armenian Genocide (Risposte ebraiche al genocidio armeno), attraverso l’accurata scelta dei testi fatta da un eccellente ricercatore californiano, Vartkes Yeghiayan, dà voce alla loro voce. Essi sfilano nel libro, uno dopo l’altro, e raccontano. Quello che hanno visto, quello che pensano, il disgusto che provano: e ognuno tiene un linguaggio differente, ognuno scrive per un pubblico differente – o per se stesso. Ma in ogni testimonianza ritorna, con infallibile puntualità, la stessa tragica storia. Come in una scena di film, girata più volte da differenti angoli di prospettiva, ma con gli stessi attori che recitano le stesse battute, da ognuno ritroviamo descritta la tecnica delle stragi degli armeni: l’uccisione degli uomini, la deportazione verso il nulla di donne, vecchi e bambini, gli assalti alle carovane, i gendarmi avidi e crudeli, l’apocalisse del ferro e del fuoco. A tutti appare chiara, con palmare evidenza, la certezza della premeditazione: cioè la volontà precisa, da parte dei Giovani turchi a capo del governo ottomano, di pianificare con estrema accuratezza gli eventi. Attraverso i tanti racconti di testimoni oculari, facenti parte di un popolo, quello ebraico, ahimè più che esperto nel riconoscere i sintomi di pogrom e persecuzioni, il lettore rivive con immediatezza i fatti che condussero all’eliminazione degli armeni dalle loro sedi ancestrali, e la brutalità efficiente dei membri del partito e delle bande di irregolari. Questi si servirono per i loro scopi di ogni astuzia e ogni mezzo possibile, disarmando i soldati di origine armena, annientando gli sporadici tentativi di resistenza, costringendo le donne alle marce della morte, col risultato finale di “estirpare” dalle radici la struttura sociale, culturale e religiosa del popolo armeno. «In tutti gli anni di questa guerra piena di orrori – scrive per esempio nel 1917 Lewis Einstein, segretario d’ambasciata a Costantinopoli – questo [l’annientamento degli armeni, ndr] resta il più efferato. Niente può eguagliare la distruzione di un’intera razza, organizzata in segreto». E Aaron Aaronsohn, suddito ottomano, nel suo appello Pro Armenia: «I massacri armeni sono stati accuratamente pianificati dai turchi, ma i tedeschi condivideranno per sempre l’odiosità di quest’atto». Concorda con forza, ancora nel 1917, André Mandel’štam, segretario dell’ambasciata russa a Costantinopoli. Ancora più impressionanti sono le testimonianze dei componenti del famoso gruppo “Nili”, costituito da alcuni giovani ebrei, figli di famiglie emigrate dalla Romania in Palestina alla fine dell’Ottocento, che, dalla loro postazione all’interno dell’impero ottomano, decisero di fornire preziose informazioni strategiche all’intelligence inglese. L’aver assistito impotenti al passaggio delle carovane degli armeni avviati allo sterminio, e la sensazione che dopo gli armeni lo stesso destino poteva toccare agli ebrei, influì potentemente sulla loro decisione. Il capo del gruppo, Aaron Aaronsohn, era un agronomo geniale, che nel 1906 aveva ritrovato in Palestina il “grano primigenio” allo stato selvatico. Le informazioni fornite dal gruppo furono preziose per l’esito della guerra in Siria e in Palestina. E tuttavia, sono i loro scritti ad essere impressionanti: vi si percepisce non solo l’accuratezza dei resoconti ma anche l’empatia compassionevole verso le disgraziate vittime armene: «I campi sono deserti, attorno al pozzo dei villaggi le ragazze armene non riempiono più le loro anfore. I turchi sono passati di là! […] Armeni, fratelli miei, noi non possiamo aspettarci niente dai governi, noi abbiamo soltanto le nostre anime…». Commovente è la storia di Sara. Lei non scrive, soffre e agisce. Nell’estate del 1915, viaggiando da Costantinopoli verso casa, attraversa tutta l’Anatolia, vede con i suoi occhi ciò che viene fatto agli armeni, e ne rimane intossicata per sempre, tanto da coinvolgere profondamente i suoi fratelli, e da venir colpita in seguito da seri disturbi psichici. Ma quando, nel settembre 1917, verrà scoperta, imprigionata e torturata, Sara non rivelerà niente dell’attività del suo gruppo; si limiterà a inveire contro i suoi torturatori in arabo, yiddish e francese, chiamandoli codardi e bestie selvagge, ma anche affermando la sua vittoria: «Voi siete perduti! I nostri salvatori stano arrivando. Io ho salvato il mio popolo, io ho vendicato il sangue degli armeni. Che siate maledetti fino alla fine dei tempi!». Infine, non mancano pagine di Raphael Lemkin, il grande giurista ebreo-polacco che inventò il termine “genocidio”, riferendosi – come scrive – prima di tutto agli armeni: della loro tragedia si era infatti occupato fin dagli anni Venti. Una lettura avvincente e stimolante, che apre inaspettate prospettive.
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