venerdì 30 agosto 2019
Parla il “Prof”, fondatore dell’Istituto Mario Negri. «Dal 1961, con i miei ricercatori lavoriamo sulla ricerca farmacologica in maniera indipendente, così siamo diventati un modello internazionale»
Il professor Silvio Garattini, 90 anni, nel suo studio milanese all’Istituto Mario Negri / Nevio Doz

Il professor Silvio Garattini, 90 anni, nel suo studio milanese all’Istituto Mario Negri / Nevio Doz

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«Pronto, sì, vada pure Rocco, grazie. Io mi fermo ancora un po’ qui in Istituto...». Questa è l’ultima telefonata della sera, al termine della classica giornata di lavoro (12 ore di solito, dalle 8 alle 20) del professor Silvio Garattini in quella che è la sua “creatura domestica”, dal 1961, anno in cui a Milano fondò l’Istituto di Ricerche Farmacologiche Mario Negri. Rocco, l’autista, se ne va con una piccola utilitaria, «la “limousine” del prof. Garattini», ha scritto il sociologo americano Donald Light nella didascalia alla foto pubblicata nel libro Good Pharma (Palgrave&Macmilian) che celebra il «modello Mario Negri» e la sua grande anima. L’anima candida dal dolce vita bianco perenne. «Di lana in inverno, di lino in estate. Leggenda vuole che lo indossi sempre perché ho fatto un voto o per un difetto fisico da celare – sorride divertito Garattini – . La ragione è molto più semplice e più pratica: l’ho fatto per comodità e per evitare a mia moglie di lavare e stirare camicie e cravatte». C’è una sola foto, datata, che ritrae Garattini in cravatta: «Già, quella in cui gioco a calcio con dei giovani dottori dell’Istituto». Qui siamo in un tempio della ricerca scientifica made in Italy, che ci invidiano nel mondo, in quanto dotato di ottime strumentazioni e di cervelli sopraffini («più di ritorno che in fuga, appassionati, pagati una miseria – rispetto alla mole di lavoro svolto –, ma con giustizia distributiva») appartenenti a una realtà che il direttore di Lancet, Richard Norton, definisce «ad altissimo standing internazionale».

Il «Prof», come lo chiama la dottoressa Elisabetta Pupillo, una dei suoi 500 fedelissimi discepoli ricercatori, sparsi nelle tre sedi del Mario Negri (300 nel polo centrale alla Bovisa di Milano, 200 nelle altre due della sua Bergamo), è una delle ultime eminenze grigie della comunità scientifica. Classe 1928 («compio 91 anni a novembre»), fisico atletico: «Il segreto? Dieta con il giusto controllo calorico, sette ore di sonno e poi tanto moto. Andiamo a prendere il caffè e niente ascensore, scale!». Ricettario essenziale di un uomo saggio come pochi, che, per meriti e per il lungo corso al servizio della scienza, va considerato un senatore a vita in pectore. «Ma lasci perdere – si schernisce – mi hanno offerto di tutto, anche di fare il ministro della Sanità, ma la politica, specie come la intendono adesso, non è roba per me». La sua materia principale, in origine, inizi anni ’50, è stata la chimica: «Misuravo quantità di plasma nei farmaci, si era agli albori della farmacocinetica». Un pioniere della farmacologia, spinto da un’autentica vocazione laica per la conoscenza scientifica che nel 1957 lo fece volare negli Stati Uniti. «Visitando tutte le università e le maggiori istituzioni americane, mi resi conto che da loro la ricerca era già una professione mentre da noi si faceva solo quando si aveva tempo. Mi aveva colpito la loro idea di Fondazione, il privato che in piena autonomia opera per il bene pubblico. Una folgorazione. Perciò, una volta tornato dissi ai miei collaboratori: o andiamo tutti in America o facciamo qualcosa di diverso, qui e subito». Così partì la caccia ai fondi e al potenziale mecenate che finanziasse il sogno della Fondazione in madrepatria. «Molti imprenditori ridevano quando gli spiegavo il mio progetto. Poi un giorno incontrai Mario Negri, un gioielliere illuminato che investiva già parte delle sue grosse fortune accumulate in un’industria, la Farmacosmici. Negri mi prese sul serio, anche se al primo incontro mi licenziò dicendomi: “Mi sembra un po’ troppo giovane per accollarsi una responsabilità così grande, non crede?”.

Alla fine del ’59 gli diagnosticarono un tumore al colon, un anno dopo Negri morì, ma quindici giorni prima di spegnersi mi chiamò e mi disse: “Stia tranquillo, tutto quello che mi ha chiesto potrà realizzarlo”». Nel testamento di Mario Negri era già scritta la direzione, assolutamente ostinata e contraria, in cui si sarebbe mosso il professor Garattini e le sue schiera in camice bianco. «Il nostro imprinting è da sempre la coerenza e l’indipendenza, dalle università, dall’industria e dai ministeri, anche se poi abbiamo collaborato con tutti». Oltre mezzo secolo alla guida di un gruppo di menti selezionatissime, in maggioranza under 40, capaci di pubblicare oltre 13mila studi e di aggiungere ogni anno qualche stella in più nella galassia della ricerca biomedica. Ma molto resta ancora da fare, e, soprattutto, da riformare. «A cominciare dal prontuario terapeutico del Servizio sanitario nazionale. Nel 1993 in pieno scandalo “sanitopoli”, quando ero a capo del Cuf (Commissione unica del farmaco) riformammo il prontuario facendo risparmiare allo Stato 4mila miliardi di vecchie lire. Da allora sono state fatte solo modifiche parziali. L’attuale ministro (Giulia Grillo) alla governance farmaceutica, che presiedo con altri due collaboratori, ha chiesto di riformare nuovamente il prontuario, ma intanto i governi cadono e ci vorrà del tempo per completare questo lavoro che è fondamentale». Fondamentale anche per muoversi nella jungla dei farmaci in circolazione. «Il 50% dei nuovi farmaci sono fotocopie di quelli già in commercio. L’unica differenza, a volte abissale, spesso sta nel prezzo, pur contenendo lo stesso principio attivo. Il mercato dei farmaci magnifica i benefici mentre gli effetti tossici o collaterali non vengono riportati. Una vigilanza seria dovrebbe andare a cercare questi effetti se gli sta veramente a cuore quello che è un principio fondante di un Paese civile: la salute dei cittadini». Sulla salute e il benessere popolare si fonderebbero anche le presunte “terapie magiche” che ha sempre denunciato e smascherato, schierandosi in prima linea, assieme al business delle multinazionali farmaceutiche. «La cialtroneria che si traveste da scienza è un pericolo che sta sempre dietro l’angolo: ieri era la cura Di Bella, oggi il principio di Hamer, con il santone che ti dice che se hai il cancro ma pensi di star bene allora guarirai. E non parliamo della moda omeopatica: assumere dell’acqua o palline di zucchero spacciate per toccasana è un insulto all’intelligenza delle persone che, per mancanza di un’equa redistribuzione anche della cultura, non sanno distinguere un’etichetta dall’altra».

Il problema da scientifico si fa culturale. «Questo è un Paese in cui per cambiare passo dovrebbe riconoscere alla scienza il suo effettivo valore e introdurla come materia didattica fin dall’asilo». Formazione e informazione, i due pilastri del pensiero garattiniano. «I media hanno la loro responsabilità. Vedi il “caso vaccini”, la storia si ripete e con conseguenze ridicole, talora anche più drammatiche. Negli anni ’50 da noi i pediatri per paura non vaccinavano contro la poliomielite, risultato: 2mila casi di neonati poliomielitici in più rispetto al resto d’Europa. Oggi in materia di vaccini è stato fatto del terrorismo, si enfatizzano i danni che non ci sono o sono limitati, per farmaci che in realtà garantiscono protezione a milioni di persone. I vaccini necessari sono tutti quelli efficaci, punto. Noi ne abbiamo 10, la Francia 11, ma a Parigi a differenza di Roma i partiti non discutono in Parlamento sull’obbligatorietà dei vaccini che hanno la loro temporaneità e che devono rispondere al principio di tutela comune». Una comunità vessata dalla spesa in farmacia che va alla costante ricerca dell’elisir di lunga vita. «Il consumismo spinge a sperperare miliardi sui farmaci con l’opinione pubblica che fa passare il falso messaggio: 'Più ne prendi, più stai bene'. Un anziano il cui presunto benessere, in base anche a prescrizioni mediche al buio, dipende da 12-15 farmaci giornalieri che obbligano la famiglia intera a perdite di denaro e di tempo. Vivono “giornate da pasticca”... Ora noi non abbiamo studi certi che ci dicono che questo tipo di impostazione sia benefica o nociva, mentre sappiamo che ogni anno ci sono 600mila morti a fronte delle 400mila nascite per le quali dobbiamo dire grazie agli stranieri residenti in Italia». Fotografia di un Paese reale sempre più anziano. «Ma è anche positivamente tra i più longevi, con le donne italiane che ormai hanno un’aspettativa di vita intorno agli 85 anni e gli uomini che si attestano su una media di 81 anni. Ma se guardiamo alla durata della “vita sana” allora non siamo ai vertici delle graduatorie. E anche in questo caso subentra l’illusione diffusa che per ogni male ci sia sempre una medicina pronta per risolvere il problema. Niente di più falso. La terapia si compra, la prevenzione no. E la prevenzione che è imprescindibile, è scritta sulla carta, ma poi più del 50% delle malattie dipendono dal nostro cattivo comportamento. Ogni anno in Italia muoiono 70mila persone per fumo da tabacco... Il nostro Parlamento invece di discutere dei vaccini rifletta su questo dato: un’intera città di provincia che in soli dodici mesi sparisce per sempre stroncata dal cancro dei fumatori ». Prevenzione e ricerca possono dunque salvare l’umanità. «Esatto, ma la prima per sciatteria non si fa e la seconda, la ricerca clinica è in mano all’industria. Il vero problema è che non esiste una ricerca clinica indipendente o se c’è è esigua perché mancano i fondi. Il Servizio sanitario nazionale spende lo 0,3% del Pil. Mastricht chiedeva di arrivare almeno al 3%.

L’attuale industria farmaceutica si attesta sul 7%, contro il 10% degli investimenti che si fanno sui telefonini». Evidentemente il cellulare è più importante della salute, è la “religione” del nostro tempo. «Noi scienziati non ci occupiamo dell’anima, ma la religione vera, quella cristiana, è un motore importante di cui tenere conto. L’interesse e la preoccupazione di papa Francesco per l’ambiente è pienamente condiviso, così come la cura dei poveri non è in contrasto con la scienza, perché se c’è una classe sociale più esposta alla ma-lattia dobbiamo intervenire. E lo stesso va fatto, come chiede la Chiesa, per lenire la sofferenza. Fin dai tempi della mia educazione all’oratorio bergamasco di Borgo Palazzo ho capito che ci può essere sinergia tra scienza e cristianesimo e che queste si incontrano nell’ “ama il prossimo tuo come te stesso”». Un comandamento universale, eterno, come la paura della morte che salutandoci il professor Garattini esorcizza con la sua inguaribile ironia: «Come direbbe il mio coscritto Piero Angela, ho superato i 90 anni, ma non posso morire... perché ho ancora troppe cose da fare».

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