mercoledì 18 aprile 2018
Dieci anni fa moriva il gesuita belga, docente alla Gregoriana. Fece scalpore con un libro in cui sosteneva la progressiva presa di coscienza di Gesù di essere figlio di Dio
Giovanni Paolo II a Fatima il 12 maggio 2000 (Ansa)

Giovanni Paolo II a Fatima il 12 maggio 2000 (Ansa)

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Un uomo spirituale dal temperamento timido sempre corroborato da uno stile di «insegnamento saldo senza ornamenti» sorretto da «una fede semplice e forte» capace di produrre nell’arco della sua lunga carriera accademica più di 140 pubblicazioni tra libri di preghiere, raffinati trattati di cristologia dogmatica e di mariologia e opere spirituali.

Furono le parole con cui il padre Jean Marie Faux – nel giorno dei suoi funerali a Bruxelles, il 22 aprile del 2008 – rievocò, durante l’omelia, la figura di uno dei più stimati teologi della Gregoriana del Novecento (basti pensare ad altri nomi del suo stesso rango come Bernard Lonergan, Juan Alfaro, Sebastian Tromp o Charles Boyer) il gesuita belga Jean Galot di cui proprio oggi ricorrono i 10 anni dalla morte, avvenuta a 89 anni a Woluwe-Saint-Pierre, non distante dalla capitale del Belgio.

Per decenni è stato il principale commentatore ed editorialista su tanti documenti magisteriali spesso dirimenti (in particolare durante il pontificato di Giovanni Paolo II) e non solo sulle colonne de “L’Osservatore Romano” (lo fu per oltre 30 anni) e contemporaneamente sulla prestigiosa rivista della Compagnia di Gesù ”La Civiltà Cattolica”, dove attraverso la chiarezza del suo stile di scrittura ha spiegato in chiave divulgativa molti temi cruciali di ecclesiologia, sulla fede in Gesù, sulla verginità di Maria o ancora questioni di frontiera, subito dopo il Concilio, sul ruolo per esempio della donna nella Chiesa (basti accennare a un suo saggio apparso proprio sul quindicinale dei gesuiti nel 1966!) o ancora sulle apparizioni e rivelazioni private nella vita della Chiesa.

Nato il 31 agosto 1919 a Liegi, a 11 anni perse la madre e da quel momento suo padre lo affidò a Maria, nel Santuario di Notre Dame de Bon Secours a Bruxelles. Questo piccolo dettaglio della sua biografia spiega molto della centrale e cruciale attenzione alla mariologia del futuro teologo sistematico di fama internazionale: si pensi solo al suo saggio più noto a riguardo Maria, la donna nell’opera di salvezza (1984).

Dopo la laurea in giurisprudenza e in criminologia a Lovanio entra nella Compagnia di Gesù il 23 aprile 1941 nel noviziato di Arlon e, solo 8 anni più tardi (un’eccezione per molti versi rispetto al tradizionale cursus formativo nei gesuiti spesso molto più lungo), il 24 agosto 1949 verrà ordinato sacerdote. La vita di Galot sarà cadenzata dagli studi prima in filosofia e poi in teologia (con annesso dottorato) e dal successivo insegnamento di teologia dogmatica prima a Eegenhoven, Lovanio e infine alla Gregoriana per più di 20 anni. Un tratto quello dello studio della cristologia e della dogmatica a cui, per più di 25 anni (1980-2005) offrirà le sue competenze come prezioso consultore della Congregazione per il clero.

Ma è nel 1977 che Galot, col libro Chi sei tu, o Cristo? fece molto scalpore in ambito accademico, soprattutto in quello strettamente tomista (per Tommaso d’Aquino infatti Gesù fin dalla nascita è consapevole della sua figliolanza divina) sostenendo la suggestiva prospettiva di un Signore che prende progressivamente «coscienza di essere figlio di Dio e il Messia» alla luce della missione e predicazione in Galilea fino alla sua salita in Croce.

Una tesi ardita che costerà incomprensioni anche tra le mura della “sua” Gregoriana. «Come per i suoi studi su Maria – è l’argomentazione del francescano e presidente della Pontificia accademia mariana internazionale, Stefano Cecchin – Galot ci ha aperto a una nuova lettura teologica su Gesù di Nazareth. Ci ha voluto presentare l’umanità, il processo di crescita e l’ebraicità di Gesù e allo stesso tempo della Vergine e della loro comune vocazione all’interno della nostra storia di salvezza.

Grazie al Vaticano II e alla sua lettura abbiamo scoperto l’idea di Maria (e questo vale anche in un certo senso per Gesù) come donna ebrea che cammina nella fede. C’è in Galot un sostanziale filo rosso di continuità tra i suoi studi sulla mariologia e sulla cristologia». E non è certo un caso che questo “mite teologo da scrivania” (nella sua immensa bibliografia il suo nome compare spesso a fianco di biblisti come gli ignaziani Ignace de La Potterie, Stanislas Lyonnet o il francescano e futuro cardinale Umberto Betti o addirittura Joseph Ratzinger) spesso offra e presenti il suo contributo in numerose pubblicazioni per spiegare importanti documenti del magistero di Paolo VI o di Giovanni Paolo II: dalla dichiarazione della Congregazione per la Dottrina della fede del 1972 Mysterium Filii Dei (in cui veniva ribadita la centralità dell’Incarnazione e della Trinità in linea col Concilio di Calcedonia) alla Lettera apostolica del 1988 Mulieris dignitatem sulla dignità della donna.

«È proprio in quest’ultimo testo – argomenta Cecchin – che affiora il magistero innovativo di Giovanni Paolo II, in cui ci ha fatto toccare con mano l’unicità del genio femminile per la vita stessa della Chiesa alla luce di Maria. Parole in fondo che sono già presenti e sotto traccia in molti degli scritti di padre Galot. E forse non è un caso che proprio del Pontefice polacco egli fu uno dei teologi di riferimento per la stesura delle sue famose catechesi mariane con cui ci viene regalata la bellissima immagine di Maria, maestra di Cristo ed educatrice».

Proprio sulle colonne dell’“Osservatore” (assieme ad un’altra illustre firma del quotidiano della Santa Sede come il filosofo Sergio Cotta) nel 1979 toccherà sempre a Galot spiegare la grandi novità della prima Enciclica di Giovanni Paolo II la Redemptor hominis dedicata alla Rivelazione cristiana: un testo passato alla storia come il “manifesto programmatico” del lungo papato wojtyliano. Un capitolo certamente singolare della vita di questo mite sacerdote belga, nella sua veste di teologo al servizio della Santa Sede, fu il suo delicato ruolo di esaminatore (assieme al domenicano Albert Patfoort e al biblista di Lovanio Albert Descamp) ricoperto nel 1979 all’interno dell’ex Sant’Uffizio, degli scritti e delle opere del domenicano olandese Edward Schillebeeckx attorno soprattutto alla tesi (questa sì ardita) di «una concezione democratica del sacerdozio visto come emanazione della comunità dei fedeli ».

La risposta pubblica di Galot a tutto questo arrivò, seppur tardiva, ma puntuale nel 1982 in un articolo di “La Civiltà Cattolica”: «La Chiesa non è una società uguale alle altre; essa ha un carattere unico, eccezionale. Non si possono dunque applicare a essa schemi e regole della sociologia, se non secondo il disegno divino che l’ha istituita. Voler prendere come punto di partenza della sua organizzazione alcuni principi sociologici, sarebbe misconoscere l’origine superiore e la finalità soprannaturale».

Ed essere «sacerdote a imitazione di Gesù» è stato in fondo il tratto portante di tutta l’esistenza di Galot. A 10 anni dalla sua scomparsa rimangono in un certo senso ancora attuali le parole pronunciate dall’allora segretario della Commissione teologica internazionale, ma soprattutto collega per tanti anni proprio alla Gregoriana del “padre-professore” Galot e oggi prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede l’arcivescovo Luis Ladaria Ferrer in cui definì il suo confratello «un lavoratore instancabile che allo studio della cristologia, in particolare il Concilio di Calcedonia, aveva donato tutto se stesso».

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