sabato 28 dicembre 2019
La riproposta dei saggi dei due autori permette di ricostruire una polemica ancora oggi molto attuale, che contrappone la «verità dei rapporti» a ogni pretesa di schematismo
Alessandro Manzoni (1785-1873) in un ritratto eseguito da Stefano Stampa nel 1848

Alessandro Manzoni (1785-1873) in un ritratto eseguito da Stefano Stampa nel 1848

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Giuseppe Rovani era stato fin troppo ottimista. «È il caso d’un capitano – aveva sostenuto elogiando I Promessi Sposi – che con una sola battaglia generale e decisiva tronchi tutte le quistioni e finisca la guerra». L’affermazione, contenuta nel saggio La mente di Alessandro Manzoni (1852), sembrava non voler tenere conto del fatto che, al contrario, di quel capolavoro romanzesco si era cominciato a discutere subito e probabilmente non si sarebbe smesso più.

Altro che quistione troncata, altro che guerra finita.

C’è il Manzoni dei critici, spesso in contrasto gli uni con gli altri, e c’è il Manzoni degli scrittori, che magari fanno fronte comune contro i critici stessi, ma poi riprendono ad accapigliarsi tra di loro. Per un narratore, infatti, è pressoché impossibile non prendere posizione davanti a un edificio romanzesco così articolato e complesso qual è quello dei Promessi Sposi.

Fatta salva qualche eccezione isolata e sintomatica (di recente è stato l’inglese Ken Follett a liquidare il romanzo manzoniano come «terribile»), è l’ammirazione a prevalere, in un arco di manifestazioni che va dal tempestivo entusiasmo di Edgar Allan Poe all’autobiografismo ben temperato di Marcello Fois, che in Renzo, Lucia e io – edito lo scorso anno da Add – ha ribadito l’importanza che il libro ancora riveste nell’educazione, anche sentimentale, del lettore italiano.

Il Manzoni degli scrittori, dicevamo, non è lo stesso per tutti gli scrittori. La consapevolezza di quanto sia efficace la «cantafavola» del romanzo si può declinare in forme diverse e addirittura inconciliabili, come nel caso, particolarmente istruttivo, del dissidio sorto fra Alberto Moravia e Carlo Emilio Gadda.

Scrittori per i quali sarebbe già di per sé difficile trovare un punto d’accordo, ma che proprio sui Promessi Sposi consumarono un duello che, a oltre mezzo secolo di distanza, conserva ancora molti elementi di attualità. I documenti della querelle risalgono agli anni Sessanta, ma tornano ora disponibili grazie a una duplice riproposta, tanto casuale quanto opportuna.

Cominciamo da Moravia, di cui Bompiani ha da poco riportato in libreria L’uomo come fine (pagine 464, euro 16,00). Come giustamente ricorda il curatore Simone Casini, si tratta della più importante prova saggistica dell’autore degli Indifferenti, qui restituita alla forma integrale del 1964 dopo numerose ristampe in versione ridotta.

Libro programmatico, benché composto in buona parte da materiali già pubblicati in precedenza. Incalzato dalle polemiche della neovanguardia, che mirano a proclamare l’impraticabilità del genere romanzesco, Moravia insiste sulla natura profondamente umanistica della letteratura («Ogni difesa dell’umanesimo – annota – è dunque una difesa della letteratura»), rievoca il proprio esordio, invoca il magistero di Boccaccio e ragiona sull’eredità di Machiavelli, da cui viene mutuata la distinzione tra mezzi e fini.

Da ultimo, però, il banco di prova è costituito dai Promessi Sposi, a proposito dei quali Moravia riprende «l’ipotesi di un realismo cattolico» in buona sostanza sovrapponibile al «realismo socialista» allora in voga nei Paesi comunisti. Con la differenza che, laddove il romanzo sovietico resta un prodotto stereotipato e scadente, il romanzo di Manzoni si impone come opera d’arte, anzi: come «il libro più ambizioso e più completo che sia stato scritto sulla realtà italiana, dopo la Divina Commedia».

Manzoni sarebbe troppo preoccupato di far coincidere l’andamento del racconto con le premesse “ideologiche” da cui muove (il cattolicesimo post- tridentino, appunto) e per questo fallirebbe nel rappresentare la conversione ed eccellerebbe nel raffigurare della corruzione. Don Abbondio, di conseguenza, sarebbe più riuscito di fra Cristoforo, e perfino l’Innominato non andrebbe al di là di un tratteggio di maniera.

Non privo di intuizioni illuminanti sul piano della drammaturgia romanzesca (le osservazioni sui dialoghi fra Lucia e suor Gertrude sono condotte con estrema finezza), l’intervento di Moravia era già apparso nel 1960 come prefazione alla nuova edizione Einaudi dei Promessi Sposi e in quell’occasione era stato oggetto di una recensione di Gadda sul quotidiano Il Giorno.

È uno dei testi che ora compongono Divagazioni e garbuglio, il volume di saggi gaddiani allestito da Liliana Orlando per Adelphi (pagine 554, euro 26,00), ovvero la seconda delle riproposte che permettono di ricostruire la disputa. A detta di un critico avveduto come Dante Isella, del resto, sarebbe stato più logico se la famosa prefazione einaudiana fosse stata affidata allo stesso Gadda, che già nel 1927 aveva dettato una memorabile Apologia manzoniana, posta non a caso in apertura di Divagazioni e garbuglio.

In quella sede erano già presenti i motivi fondamentali del dissenso nei confronti di Moravia: per l’autore del Pasticciaccio Manzoni è un realista della stessa tempra e della stessa temperie di Caravaggio, come lui capace di mettere in risalto la «grave tristezza » di un Barocco che è categoria più dell’anima che della Storia.

Gadda non può accettare la tripartizione suggerita da Moravia, per il quale nei Promessi Sposi il livello della «propaganda» andrebbe distinto da quelli della sensibilità sociale e dei sentimenti genuinamente provati dai personaggi, primi fra tutti Lucia e Renzo.

Il romanzo, per Gadda, esprime «la verità dei rapporti di fatto, non di rapporti sistematizzati». In modo ancora più esplicito, in una lettera inviata a Pietro Citati, Gadda respingeva con stizza l’idea stessa di un «realismo cattolico» per insistere sulla «realtà biologica e storica di rapporti e di fatti» da cui scaturisce l’«oscura metafisica » manzoniana.

«Legga molto attentamente i Promessi – raccomandava –. Ricordi: Spagna, Lombardia, concatenazione di fatti necessarî, peste Lanzi Tadino...». La differenza tra un Manzoni e l’altro sta proprio in questo: Moravia parla dei Promessi Sposi come di un libro che non ci si stanca di leggere, Gadda come di un libro che potrebbe aver scritto lui stesso. O che forse ha scritto davvero, come viene da sospettare quando ci si sofferma su certe pagine della Cognizione del dolore, dove la Lombardia si maschera di ispanismi e tutto si gioca sul piano della «stirpe», nel garbuglio inestricabile degli affetti familiari.

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