mercoledì 25 giugno 2014
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Vi sono pensatori la cui opera dimostra una forza che supera di gran lunga il valore delle singole tesi interpretative ch’essi sostengono e difendono. Nel leggere i loro testi, nell’ascoltare le loro parole e nel seguire i loro ragionamenti si è presi all’interno di una riflessione, di uno stile o meglio di un respiro di pensiero, che è come se spiazzasse o distraesse dall’urgenza, in verità sempre un po’ puerile, di dover decidere ad ogni costo se dire “sì” o “no” a questa affermazione oppure a quell’altra. Viceversa vi sono dei pensatori con le cui tesi ci si trova sempre d’accordo, subito d’accordo, ma la cui opera, certamente condivisibile, ragionevole e “benpensata”, in verità delude, lascia indifferenti, togliendo talvolta persino la voglia di continuare a studiare. Nel leggere i testi dei primi, e in particolare nel rileggerli magari a distanza di venti o trent’anni, si impara sempre qualcosa di nuovo, non si finisce di imparare, e soprattutto si viene come sollecitati a pensare in proprio, raggiunti da delle “evidenze” così semplici e chiare che ci sorprende del fatto di non averle sapute cogliere prima. La “forza” dell’opera di simili pensatori coincide in verità con la loro “fecondità”: ci sono autori che fanno riflettere, che fecondano il pensiero, a volte sostenendo anche tesi strane, con le quali non ci si trova immediatamente d’accordo, così come ci sono autori che inibiscono il pensiero, che sterilizzano il pensiero, spesso sostenendo tesi ragionevoli con le quali non si riesce, verrebbe da dire per sfortuna, che ad essere d’accordo. In effetti pensare non ha mai significato dimostrare delle tesi, ed è proprio per questa ragione che l’opera di un vero pensatore ha un respiro, per l’appunto una fecondità, che va sempre al di là della fortuna o della sfortuna delle singole proposizioni ch’esso ha voluto e qualche volta creduto di dover sostenere.Foucault è stato senza alcun dubbio un vero pensatore. Riferendosi a La storia della follia (1961) Jacques Derrida, che come è noto non ha certo risparmiato le critiche all’amico, ha riconosciuto che «qualunque cosa si pensi di questo libro, qualunque domanda o riserva possa ispirare ad alcuni su tale o tal’altro punto di vista, appare incontestabile che ha avuto la forza di tracciare un cammino» (Ogni volta unica, la fine del mondo, Jaca Book). Questo cammino resta ancora aperto e tutti coloro che avranno l’umiltà e la serietà di ripercorrerlo non ne resteranno certamente delusi. Che cosa rimane della lezione di Foucault a trent’anni della sua morte? A me sembra che siano essenzialmente due i grandi insegnamenti foucaultiani in grado di interrogare il nostro presente e di rilanciare ancora il nostro pensiero.Vi è innanzitutto il tema del potere, ma più precisamente bisogna dire dello smascheramento del potere. Non è la verità ma il potere che ama nascondersi, ed esso si nasconde sotto quel senso dell’ovvio, del naturale, che finisce per far apparire tutto neutrale e di conseguenza inevitabile. Negli anni Settanta ed Ottanta la tematica del sospetto e dello smascheramento era di moda, e in quanto tale essa è giustamente passata; ma la cosiddetta fine delle ideologie si è portata con se anche la fine della critica all’ideologia come se oggi non ci fosse più nulla da smascherare, su cui interrogarsi. Ma se c’è qualcosa che è sempre all’opera, che è sempre di moda, è per l’appunto il potere, l’esercizio del potere, e Foucault ha magistralmente mostrato ch’esso agisce, non solo negli apparati politici e religiosi o nella burocrazia statale, ma anche nel sesso, nella follia e persino nella cura di sé.  Contro ogni supposta “trasparenza originaria” il pensatore francese non si è stancato di mostrare che i codici fondamentali sui quali si fonda una determinata società «non sono forse i soli possibili o i migliori» (Le parole e le cose, Rizzoli). Questa lezione non può ma soprattutto non deve restare inascoltata.In secondo luogo vi è il tema della verità, ma più precisamente bisogna dire dell’etica della verità. A tale riguardo ha perfettamente ragione Remo Bodei quando, nella sua introduzione al magnifico saggio sulla parresia (Discorso e verità, Donzelli, afferma: «Per Foucault la “verità” indubbiamente esiste, così come esiste il potere di condizionamento e quello di dominazione. Il problema, semmai, verte sui loro nessi di interdipendenza e sulle specifiche modalità del loro intreccio». D’altra parte – contro coloro che sono sempre pronti, allora come ora, ad accusare di relativismo o di scetticismo ogni pensiero che pone qualche domanda e osa interrogare ed interrogarsi – è lo stesso pensatore francese a chiarire nelle conclusioni di questo saggio il proprio intento: «La mia intenzione non era affrontare il problema della verità, ma il problema di colui che dice la verità, del dire la verità come attività». Grandissimo e magnifico tema: la verità come attività del dire, come inseparabile da colui che cerca-spera-desidera dirla. Verità, dunque, non assoluta, ma non perché relativa ma perché “non sola”.Ecco perché a me sembra che si possa certamente applicare a Foucault ciò che Lacan afferma a proposito di altri pensatori: «Né Socrate, né Descartes, né Marx, né Freud, possono essere “superati” in quanto hanno condotto la loro ricerca con quella passione di svelare che ha un oggetto: la verità» (Scritti, Einaudi).
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