giovedì 24 marzo 2016
“Cte”: il male oscuro del Football
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Nel calcio italiano sappiamo che esiste un “male oscuro” chiamato Sla (Sclerosi laterale amiotrofica), nel football americano ci sono altre tre lettere letali di una malattia, anche questa neurodegenerativa, “Cte” (encefalopatia traumatica cronica) che sta mietendo altrettante vittime. Per la Sla dei calciatori, data anche la multifattorialità del morbo, si continua a brancolare nel buio: si va dalle conseguenze dei traumi, al possibile abuso di farmaci ed eventuali sostanze dopanti, fino ai fattori ambientali (“erba killer” pesticidi, diserbanti e acque inquinate con cui si irrigano i campi di gioco) su cui si stanno concentrando gli sforzi dei ricercatori scientifici, soprattutto italiani. Sì perché solo da noi, anche grazie all’inchiesta aperta dal giudice Raffaele Guariniello, si è tentato di far luce sui circa sessanta casi di morti di Sla riscontrati su una popolazione di 24mila calciatori, censita dal 1971 al 2001. La Sla è presente in altri campionati calcistici europei, ma probabilmente la sporadicità dei casi di malati e morti finora riscontrati è dovuta all’assenza di indagini scientifiche, e giudiziarie, accurate. Negli Usa invece la ricerca medica già dal 2010 ha fatto scattare l’allarme «sos Cte» nel pianeta football. E in questi giorni ad amplificarlo, sensibilizzando l’opinione pubblica americana, ci sta pensando un noto volto di Hollywood, l’attore Will Smith, protagonista di un film-denuncia sullo sport nazionale degli Usa. Volando dall’altra parte dell’Oceano, il male oscuro del pallone da calcio, diventa così la «zona d’ombra» dell’ovale del football. A illuminarla c’ha pensato il dottor Bennet Omalu, il neuropatologo che ha “smascherato” la presenza inquietante della Cte nel football. Tanti piccoli e grandi eroi del fantastico mondo a stelle e strisce del Superbowl sono affetti dalla malattia o dichiarati a «forte rischio».  Lo studio condotto dal dottor Everett Lehman, del National Institute for Occupational Safety and Health di Cincinnati (Ohio), è giunto alla conclusione che «i giocatori di football americano, muoiono tre volte più del resto della popolazione per malattie neurodegenerative in generale ». Nel calcio i malati di Sla sono 7-8 volte più della media, nel football americano di Sla o Morbo di Gehrig la mortalità è quattro volte superiore. I giocatori di football si ammalano di più rispetto alle altre categorie sociali anche di Alzheimer (4 volte sopra alla media), ma la grande piaga è la Cte che già negli anni Trenta era nota come “demenza pugilistica”: la patologia per cui i pugili vanno incontro alla perdita progressiva della memoria, delle facoltà motorie e cognitive. Il dato epidemiologico non lascia scampo: la Cte è il “morbo” del football americano. Su 3.400 ex giocatori professionisti - età media di 57 anni, in attività per almeno un lustro nelle stagioni agonistiche che vanno dal 1959 all’88 sono stati registrati 334 decessi, circa il 10% di questa specifica popolazione sportiva. Del resto uno studio neurologico del 2000 aveva riscontrato che il 61% degli oltre mille profes- sionisti del football testati avevano subito almeno una commozione cerebrale in carriera. Colpi violenti, a volte proibiti, come quel «cazzotto sul casco» che causò il primo trauma cranico di Rayfield Wright - ruolo offensive tackle, il protettore del quarterback - bandiera dei Dallas Cowboys. «Ne ho avuti così tanti di quei traumi che ho perso il conto... », ha dichiarato Wright ritiratosi nel 1979: oggi è un settantenne al quale è stata diagnosticata la Cte. A Kyle Turley, anche lui offensive tackle, classe 1945, nel 2007 quando era in forza ai Kansas City Chiefs venne diagnosticata la stessa malattia. «Anch’io ho avuto diverse commozioni cerebrali frutto dei troppi traumi cranici. Dopo certe botte alla testa non ricordi molto - ha raccontato Turley - . Ci sono volte in cui colpisci un tizio e poi sei coinvolto in una mischia dove tutto finisce sottosopra. Sei confuso. E ci sono altre volte in cui parti dalla tua parte di campo, e vai su e giù, quindici, diciotto volte di fila. E ad ogni azione: scontro, scontro, scontro. Davvero, ci sono queste specie di esplosioni bianche - “bum, bum, bum” - e le luci diventano più fioche e chiare». Un racconto drammatico in cui si sono riconosciuti quei 2mila giocatori e le loro famiglie che hanno avviato una class action contro la Nfl (National football league), responsabile secondo loro di aver taciuto in questi anni le informazioni relative ai possibili danni cerebrali correlati alla pratica professionale. Alla Nfl erano stati chiesti danni per 765 milioni di dollari, ma il giudice federale Anita Brody ha negato l’approvazione per il patteggiamento, perché dalle indagini sono emersi 20mila casi di giocatori che hanno avuto commozioni cerebrali in carriera: «Per cui - ha sentenziato il giudice - quella cifra non riuscirà a coprire tutti gli atleti che hanno ricevuto una diagnosi medica, né le loro famiglie». La Nfl ha preso provvedimenti cautelari per diminuire il numero degli scontri di gioco, specie le «testate casco contro casco». Ma intanto il football americano rimane uno sport che esalta la ferocia agonistica. «Più ti scontri e più sei un vero campione», è lo slogan dei guerrieri dell’ovale made in Usa. Intanto il numero delle vittime di Cte salgono, e come nel calcio è emerso che i più colpiti dalla Sla sarebbero i centrocampisti, nel football americano l’incidenza massima dell’encefalopatia si registra tra i quarterback, guarda caso le menti pensanti delle squadre. Menti purtroppo perdute quelle dei poveri Junior Seau, Dave Duerson e Ray Easterling, ex giocatori della Nfl, uniti da un tragico destino: il suicidio. Affetti da depressioni e demenza precoce correlata alle maledette commozioni cerebrali che avevano subito in campo tutti e tre si sono tolti la vita sparandosi un colpo di pistola. Duerson prima di andarsene per sempre ha inviato un drammatico sms ai famigliari in cui li implorava: «Mandate ad analizzare il mio cervello al laboratorio della Boston University School of Medicine». In questo centro specialistico nel 2011 a Duerson avevano diagnosticato la ma-lattia neurodegenerativa causata dalle botte in testa prese nel periodo in cui giocava a football. Così poi, anche i famigliari di Junior Seau hanno deciso di chiedere al centro di Boston di analizzare il cervello del figlio defunto. E su questo solco ecco l’ultimo dato impressionante: il 95% degli ex giocatori di football americano (87 su 91) che hanno donato il cervello alla ricerca scientifica è risultato positivo ad una patologia collegata ai traumi cranici. «Questo è il football. Ti dicono che può capitarti sia di farti male che di infortunarti. Non esiste una via di mezzo. Se sei infortunato non puoi giocare, ma se ti sei fatto male puoi giocare eccome. Il discrimine fra queste due cose è la capacità di mettersi in testa un casco e un paraspalle», ha detto uno sconsolato Turley.  Un j’accuse che ha messo sulla strenua difensiva almeno il 40% (cifra da sondaggio) dei genitori americani, i quali fanno sapere di non avere nessuna intenzione di mandare più i loro figli a rischiare la salute, e forse anche di morire, su un campo da football. Del resto una donna, l’attrice Sandra Bullock in in The Blind Side ci aveva avvertiti sui rischi che corrono i giocatori di football quando impattano «con la violenza di due autotreni che si scontrano, tutto esplode. Dal passaggio della palla allo scrocchio del primo osso passano meno di cinque secondi». Poi, spesso, è troppo tardi per rimediare.
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