martedì 19 maggio 2020
Esce il nuovo singolo del cantautore nato in periodo di pandemia: «Un inno per ripartire e rinnovarci».
Il cantautore milanese Eugenio Finardi

Il cantautore milanese Eugenio Finardi

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«Di parole chiare,/ di questo abbiamo bisogno, / di nuove paure / noi non abbiamo bisogno./ Disinformazione, speculazione / no non ne abbiamo bisogno, / di immaginazione ne avremo sempre bisogno». Un inno alla coalizione, al diritto alla dignità e al calore umano. Chitarra tesa, voce graffiante tra rabbia e ironia: è tornata la musica ribelle di Eugenio Finardi che dalla sua città grida al mondo di tornare in pista per cambiare le cose prima che sia troppo tardi. E’ ora disponibile su tutte le piattaforme streaming Milano chiama (EF Sounds, distribuzione Artist First), il nuovo singolo del cantautore nato in periodo di pandemia. Dalla sua casa in zona San Siro, l’artista racconta ad Avvenire come è nato il suo inno.

Eugenio Finardi torna alla musica di denuncia non nelle piazze, ma dalla propria casa?

Verso la fine di gennaio, il chitarrista Giuvazza e io ci siamo trovati a casa mia per lavorare a dei nuovi brani. Tuttavia, giorno dopo giorno, intorno l’aria stava cambiando, l’allarme saliva e la Cnn dichiarava Bergamo, la mia città d’origine, “epicentro del virus in Occidente”. Con un orecchio seguivo quasi ossessivamente le notizie, mentre con l’altro ascoltavo Giuvazza che provava la chitarra che gli avevo appena costruito (ormai sono diventato un artigiano) percuotendola con un riff tagliente e perentorio. Mi uscì un urlo: «Milano chiama!». Buttammo giù un appunto dell’idea e Giuvazza tornò a Torino. Fu l’ultima volta che lo vidi senza l’aiuto di Skype.

Un singolo registrato in casa raccogliendo quali sensazioni?

Mai come in questo momento siamo costretti a restare in quiete, ascoltando questo oceano di silenzio, soli. Questo brano è un’esortazione a ripartire con ancora più forza e lottare perché tutto non sia mai più come prima. L’ho tenuto per questo momento, è il distillato di ciò che abbiamo imparato. Abbiamo imparato il valore e il senso della comunità, anche in famiglia. Io, fino a questo Coronavirus, non cenavo con la mia figlia più piccola da mesi, anche se vivo con lei. In questo momento in casa siamo in cinque: oltre a me, suocera, moglie, figlia e cagnetta… La prima cosa è questo ritrovare il senso dell’essere comunità: i limiti alla propria libertà, la comprensione reciproca ci faranno uscire con una grande lezione collettiva.

E fuori dalle proprie mura?

L’emergenza ci ha dato il sentore di ciò che potrebbe essere: non c’è inquinamento, c’è un silenzio meraviglioso. Abbiamo vissuto uno spazio di vacanza, di svuotamento e ritrovando il gusto del silenzio. Al tempo stesso c’è consapevolezza della collettività. Oggi capiamo quanto abbiamo bisogno di essere comunità nella libertà e quanto sono importanti i segni, un sorriso, un saluto. Un periodo anche, per chi l’ha saputo usare, di grande esplorazione interiore, di spiritualità, anche nella paura. Credo che sia anche una risposta del pianeta alla violenza che gli stiamo facendo. Ne dovremmo uscire migliori.

C’è come un ritorno alla canzone politica degli anni 70?

E’ arrivato il momento di porre freno alla frenesia con cui stavamo vivendo. C’è un discorso di giustizia sociale ed economico da valutare: delle diseguaglianze economiche occorre ora a farsene carico, credo che questa emergenza porterà anche un senso di dovere nella comunità. Milano chiama nasce come un canto di lotta, solo che non c’è il nemico: il nemico siamo noi stessi. C’è bisogno di un canto popolare come quelli delle mondine, un “sebben che paura non abbiamo”, una Marsigliese.

Un inno in cui la sua Milano torni ad essere motore propulsivo e propositivo?

Il brano è nato all’inizio del lockdown, prima che arrivassero il torpore ,il silenzio e la meditazione. E poi è stato covato finché è arrivato questo momento di reazione per tirarlo fuori. Diamoci una mossa. Ma il Finardi di oggi è sempre il Finardi degli anni 70, è sempre rimasto della stessa idea. Abbiamo vissuto un grande momento di rivoluzione tecnologica e pratica, ma essere rivoluzionari oggi è essere “conservatori”, conservare l’ambiente, conservare l’umanità.

Anche Papa Francesco lo ha ricordato più volte in questi giorni…

Premetto che non sono un credente, ma credo che la spiritualità sia una caratteristica e una necessità dell’uomo. Papa Francesco ha compiuto dei gesti bellissimi. C’è bisogno di un nuovo senso di ciò che è sacro: dobbiamo assumerci più responsabilità, essere più pastori e meno agnelli, inserire nuovi pensieri “alti” nei pensieri e nei doveri che dobbiamo assumere. Questo momento ci ha dato una grossa spinta a ripensare a ciò che è veramente sacro. La vita umana è sacra, la vita del pianeta è sacra. Dobbiamo essere costruttori e non distruttori. E’ il momento della scelta, siamo a un bivio della storia.

Un cambio di passo per tutto il mondo?

La cultura dominante materialista, l’economia, la finanza, il predominio del denaro, devono oggi inchinarsi a qualcosa di superiore, alla madre terra e al cosmo. Se sei un credente hai questa responsabiltà. Se non sei credente anche. Io ho una figlia down, da sempre vado all’istituto don Gnocchi e lì trovi operatori cattolici che hanno una fede strepitosa e non credenti che hanno una grande fede sociale e umana.

Quando tutto questo finirà, quale sarà la prima cosa che vorrà fare? Rivedere mia figlia Elettra, (37 anni) che non vedo dall’inizio del lockdown: vive questo periodo isolata in comunità ed è tra le categorie più a rischio. Ho appena rivisto mio figlio, che ha 29 anni: ho avuto paura di abbracciarlo all’inizio. Stringerlo a me è stato il primo atto di coraggio. Francesca, che ha 20 anni, in questi giorni ha iniziato a studiare la chitarra e a comporre dei brani, fra cui uno molto bello su come ci si può amare oggi solo attraverso uno schermo. Penso che potremo lavorare insieme.

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