sabato 20 giugno 2015
​A Lamezia Terme le storie di cronisti uccisi o minacciati dalla criminalità organizzata. Vicende che anche oggi si ripetono.
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Per cinque lunghi anni Raffaele Sardo ha tenuto in tasca una foto. Sul retro una frase: «Se mi succede qualcosa è stato lui». Raffaele non è un magistrato, né un poliziotto, ma un giornalista, collaboratore di Repubblica dalla provincia di Caserta, cioè da paesi come Casal di Principe, Casapesenna, San Cipriano d’Aversa, il cuore del potere del clan camorrista dei 'casalesi', terra dove anche il mestiere di giornalista può essere ad alto rischio. «Soprattutto quando si è soli, isolati», spiega Raffaele. Proprio questi giornalisti 'con la schiena dritta', spesso precari o part time come Raffaele, che di mestiere fa l’impiegato al comune di Carinaro, sono protagonisti a Lamezia Terme di 'Trame 5', il Festival dei libri sulle mafie, unico in Italia, che si chiude domani.  Un evento che si è aperto nel ricordo di uno di loro, Giancarlo Siani, il giovane precario del Mattino ('abusivo' in gergo giornalistico), ucciso ad appena 26 anni il 23 settembre 1985, quasi trenta anni fa. Delitto di camorra, per colpire un giornalista vero. «E io ti seguo...» era la tranquillizzante, ma un po’ scocciata e sicuramente falsa risposta che in tanti davano a Giancarlo. Lui girava, batteva marciapiedi e periferie, indagava, approfondiva. E, pieno di entusiasmo, raccontava. Colleghi, investigatori, magistrati, lo invitavano ad andare avanti. «E io ti seguo...», promettevano. Giancarlo andava avanti, correva e combatteva, come il mehari, il dromedario africano addestrato proprio per questo. Giá, il mehari, il nome dell’auto nella quale venne crivellato dai colpi dei killer. Solo, perché anche quella volta nessuno lo aveva seguito. La stessa auto che, restaurata e curata dall’associazione Polis di Napoli, gira l’Italia, ed è anche qui a Lamezia, per ricordare un giovane giornalista che non si accontentava di raccontare i fatti, ma cercava la verità. A parlarne anche il fratello Paolo che ne porta per l’Italia la memoria e quel sorriso della foto più nota. Presentato anche il libro Il caso non è chiuso. La verità sull’omicidio Siani di Roberto Paolo (Castelvecchi editore). Non l’unico libro su un giornalista ucciso. Al Festival anche Cento passi ancora. Peppino Impastato, i compagni, Felicia, l’inchiesta di Salvo Vitale (Rubbettino editore). E brani di Siani, Impastato e Giuseppe Fava sono stati letti da Luigi Lo Cascio, protagonista del film I centopassi sulla vita del giovane giornalista e animatore di Radio Aut di Cinisi ucciso da Cosa Nostra. Che fuori dal coro diceva che «se si insegnasse la bellezza alla gente, la si fornirebbe di un’arma contro la rassegnazione, la paura e l’omertà».  Giovani giornalisti. E infatti il Festival, come spiega il direttore Gaetano Savatteri, «è dedicato ai 'giovani favolosi', ragazze e ragazzi che in tutta Italia lottano contro le mafie e per la libertà». Raccontando anche chi proprio per difendere la libertà ha dato la vita, come sottolinea Massimo Bray, direttore dell’Istituto dell’Enciclopedia Italiana, partner del Festival. «È importante coinvolgere i giovani che di certi fatti non hanno memoria. Credo che, accanto alle vite dei grandi della storia, il portale Treccani potrà ospitare anche le biografie di tutte le vittime innocenti delle mafie ». È quello che fa da anni Raffaele Sardo, autore di vari libri sulle vittime della camorra. L’ultimo, presentato ieri a Trame, è Don Peppe Diana. Un martire in terra di camorra (Di Girolamo editore). Un legame molto forte quello tra il giornalista e il parroco di Casal di Principe ucciso il 19 marzo 1994. «Io ero direttore del giornale Lo Spettro sul quale scriveva don Peppe. La mia scelta é nata tutta da lì, da quella esperienza, da quell’incontro. Ti cresce una sensibilità. Ci vuole amore per la propria terra, raccontando il brutto e il bello. Con la voglia di vederla cambiare».  Dunque un giornalismo scelto «non solo perché ti piace ma perché capisci l’importanza del racconto, della conoscenza degli esempi positivi come don Peppe e tante altre vittime». Un giornalismo di denuncia ma che non rincorre il clamore. «Bisogna seminare più che provocare», è la convinzione di Raffaele. Ma il rischio resta. Ne sa qualcosa Michele Albanese, giornalista del Quotidiano del Sud dalla Piana di Gioia Tauro. Dallo scorso anno vive sotto scorta dopo che gli investigatori hanno intercettato un progetto di attentato nei suoi confronti. «Non sono un eroe. Ed è inumano vivere da scortato, soprattutto come giornalista. Ma se questo può contribuire alla libertà della mia terra sono disposto ad accettarlo». Come Giancarlo, Peppino e Raffaele, anche Michele ha le idee chiare sul suo giornalismo. «C’è denuncia, c’è racconto, per stimolare la reazione della società civile e soprattutto la crescita umana». E insiste: «Io voglio contribuire a liberare la mia terra dalla schiavitù di pochi uomini. Chi non è libero non ha la bellezza del futuro. E il futuro della mia terra io lo vedo negli occhi dei giovani. Aiutiamoli a restare da uomini liberi». 
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