giovedì 5 agosto 2010
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«L’assenza non è il nulla, ma può colmarsi di significati metafisici»: così, in un’intervista che aveva concesso a chi scrive nel dicembre 1990, Luciano Erba parlava del senso della neve, che «abolisce le differenze tra le forme», creando «un senso di uguaglianza e ricordandoci il progressivo vanificarsi di ogni esistenza». Oggi queste parole echeggiano come una suggestiva descrizione della sua stessa poesia, che ha sempre rappresentato il difficile equilibrio fra l’io e le cose, fra un universo interiore e uno esteriore, di cui – per sua definizione – «la natura è il simbolo di maggiore evidenza». La coerenza, la continuità, la grande onestà intellettuale hanno sempre segnato la vita di Luciano Erba, che si è spento martedì nella tarda serata di lunedì 2 agosto. Nato nel 1922 a Milano, lì ha sempre vissuto, con grande fedeltà. Si era laureato all’Università Cattolica nel 1947, e anni dopo vi avrebbe insegnato Letteratura francese. Negli anni Cinquanta frequentò il cenacolo di scrittori, poeti e critici che si riunivano nel milanese «Blu Bar», tra cui spiccavano Vittorio Sereni e Piero Chiara. E di letteratura francese ha continuato a occuparsi per tutta la vita, mettendo al servizio della traduzione la sua cultura raffinata e la sapienza poetica, e ottenendo a sua volta la traduzione in francese della raccolta L’ippopotamo, nel 1992. Maurizio Cucchi per primo lo ha avvicinato a un altro grande poeta appunto francese, Jacques Prévert, e la vicinanza si può davvero riconoscere nell’attenzione alla realtà urbana, nei cui movimenti ripetuti si condensa la vita umana, specie nei momenti in cui gli oggetti sembrano prendere il sopravvento sui pensieri, ma solo per farsene i portavoce più autentici, più intensi. La vita quotidiana scorre col suo fascino discreto nei versi di Luciano Erba fin dalla raccolta d’esordio, Linea K, uscita nel 1951. Libro che contiene in sé tutti i semi del poeta maturo, come mostreranno quelle successive, Il bel paese (1955) e Il prete di Ratanà (1959), confluite poi ne Il male minore (1960). Intanto Luciano Anceschi lo accoglieva nella sua antologia Linea lombarda del 1952, attribuendogli le qualità di «nitidezza e allegria» che riconosceva anche in altri cinque poeti, dotati di una concretezza serena, che comprendeva il mondo come in un abbraccio di consolazione. Ma a sua volta Erba in quegli stessi anni si dedicava alla scoperta di talenti poetici, in sodalizio con Piero Chiara, un autore per rispetto dell’umanità e pensosa ironia a lui vicino, curando l’antologia Quarta generazione. La giovane poesia (1945-1954) nel 1954. Un’antologia di cui lui stesso faceva parte, ottenendo per sé a lungo quella definizione di appartenenza a una «quarta generazione» poetica italiana. Seguì una lunga fase di silenzio, attraverso tutti gli anni Sessanta e gran parte del decennio successivo: dopo la pubblicazione di Il male minore, Erba riprese a dare alle stampe la sua poesia solo nel 1977, con Il prato più verde che venne salutato – in particolare da un poeta e critico molto attivo negli anni Settanta e Ottanta, Antonio Porta – come un «ritorno felice». Questo silenzio non è casuale: così come era stato lontano dall’ermetismo negli anni della sua formazione, Luciano Erba lo era anche più decisamente dalla neo-avanguardia, che considerava un’illusione, una «chimera sperimentalistica». Dopo tanti anni il suo originale sguardo poetico era rimasto intatto, mosso da una connaturata discrezione eppure in grado di cogliere l’essenza degli eventi e delle persone attraverso i dettagli, con gentilezza partecipe. Così come nelle raccolte più recenti, Il nastro di Moebius (1980) (in cui trovano sede, con cambiamenti e aggiornamenti, Il prato più verde e ancora Il male minore) e poi L’ippopotamo (1989), L’ipotesi circense (1995), Nella terra di mezzo (2000), e nei testi inediti del complessivo volume Poesie 1951-2001 (2002), in cui torna l’amata Milano dal punto di vista di un «superstite del primo Novecento». Un’attenzione alla sua stessa storia che è sinonimo di tenace approfondimento delle proprie scoperte poetiche, ma anche di fede in una certa tradizione, nel valore inattaccabile della parola, mai considerata gioco letterario, mai snaturata, ma rispettata nella sua naturale potenza, senza eccessi o squilibri. Ne fa fede la stima di un altro importante poeta, a sua volta scomparso da pochi mesi, il maestro della neo-avanguardia Edoardo Sanguineti, che nel 1969 lo incluse nella sua Poesia italiana del Novecento, unico di tutta la «quarta generazione».
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