venerdì 22 gennaio 2016
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In Israele il processo andava in diretta, trasmesso dalla radio. Nel resto del mondo le immagini televisive arrivavano con lo scarto di qualche giorno, il tempo necessario a spedire i nastri magnetici per posta aerea da Gerusalemme, e poi doppiarli, sottotitolarli. Fu l’evento mediatico  del 1961, nonostante la concorrenza della prima missione spaziale sovietica (quella che spedì in orbita il cosmonauta Yuri Gagarin) e a dispetto dell’inasprirsi della crisi a Cuba. L’imputato era Adolf Eichmann, il gerarca nazista accusato di essere fra gli ideatori della Soluzione Finale. Il Mossad lo aveva catturato nel 1960 in Argentina, dove viveva sotto falso nome. Gideon Hausner, il pubblico ministero, impiegò giorni e giorni della sua requisitoria per spiegare come e perché lo Stato di Israele avesse il diritto di perseguire l’uomo ritenuto responsabile dello sterminio di sei milioni di ebrei. Operazione impeccabile dal punto di vista giuridico, ma potenzialmente disastrosa sul piano degli ascolti. Sì, perché il processo era una trasmissione televisiva come mai ne erano state realizzate in precedenza, ma pur sempre una trasmissione televisiva restava. Soggetta alla conta degli spettatori, sempre in bilico tra costi e ricavi.  È su questa ambiguità che insiste The Eichmann Show, il film diretto da Paul Andrew Williams che Lucky Red porta nelle sale italiane dal 25 al 27 gennaio, come evento speciale legato al Giorno della Memoria. Documentazione rigorosamente di prima mano, a partire dalle sequenze del “processo del secolo” che non più tardi di un paio di anni fa avevamo avuto modo di rivedere in Hannah Arendt di Margarethe von Trotta. E prima ancora, nel 1999, lo stesso materiale di archivio era stato rielaborato dal franco-israeliano Eyal Sivan nel documentario Lo specialista, a sua volta al centro di una controversia fra gli studiosi della Shoah (l’elemento decisivo è, ancora una volta, l’adesione del regista alle tesi sostenute dalla stessa Arendt nel classico reportage La banalità del male).Quelle del processo Eichmann sono fra le riprese televisive più famose nella storia dei media, ma la loro genesi rimane relativamente poco conosciuta. Ed è proprio questo il retroscena indagato da The Eichmann Show, dove si ricostruiscono con abbondanza di particolari le vicende e le personalità di quanti furono impegnati nell’impresa. A condividersi il ruolo di protagonista sono due attori di generazioni diverse, il solido Anthony LaPaglia e il sempre più apprezzato Martin Freeman. Quest’ultimo – noto tra l’altro come interprete principale della versione cinematografica dello Hobbit di J.R.R. Tolkien – impersona qui il produttore televisivo Milton Fruchtman, che per primo prese l’iniziativa di trasformare il dibattimento in uno spettacolo globale. Fiutando la possibilità di un riscontro sensazionale, certo, ma anche rispondendo al richiamo di un’etica della responsabilità e della testimonianza. Fu Fruchtman, infatti, a scegliere come regista Leo Hurwitz (è il personaggio di LaPaglia), un professionista di rango da tempo disoccupato per essere finito nella famigerata “lista nera” in cui il senatore Joseph McCarthy aveva confinato intellettuali e semplici cittadini sospettati di attività antiamericane. È la cupa stagione descritta con maestria da George Clooney in Good Night, and Good Luck (2005), film decisamente più complesso sul piano della resa stilistica e dell’innovazione narrativa rispetto a The Eichmann Show, con il quale condivide tuttavia il tema della celebrazione dell’epoca d’oro della televisione statunitense. La ricostruzione di Williams – basata sulla sceneggiatura originale di Simon Block – è ricchissima di informazioni sulle difficoltà anche tecniche che Fruchtman e Hurwitz dovettero superare. I giudici israeliani temevano che la presenza delle telecamere finisse per falsare l’andamento delle udienze e per sfuggire a questa obiezione fu messo a punto un sistema di riprese nascoste che può essere considerato come un antesignano di quello attualmente impiegato nei reality.  In generale, però, era lo stato delle tecnologie a rendere particolarmente delicato il lavoro della troupe. All’epoca, infatti, non esistevano registrazioni di sicurezza e tutto quello che non veniva subito impresso sul cosiddetto “mastro” era perduto per sempre. Hurwtiz, per esempio, non riuscì a catturare il malore di uno dei testimoni che, sopraffatto dell’emozione, svenne mentre stava lasciando l’aula. Anche in quell’istante, per una precisa scelta registica, la telecamera era puntata sull’imperscrutabile Eichmann, nel tentativo di cogliere un suo pur minimo cedimento. Nei lunghi mesi del processo, conclusosi con la condanna a morte dell’imputato, le posizioni di Fruchtman e Hurwitz furono spesso in contrasto, ma non venne mai meno la comune volontà di attribuire alla televisione un ruolo attivo e a tratti determinante. Al di là di ogni altra considerazione, la trasmissione contribuì in modo decisivo a far conoscere quanto era accaduto nei campi di sterminio, rendendo di dominio pubblico orrori che anche molti cittadini israeliani si erano rifiutati di prendere in considerazione. Il programma allestito da Fruchtman e Hurwitz fu, in un certo senso, il corrispettivo mediatico di quello che Se questo è un uomo era stato in letteratura: com’è noto, la casa editrice Einaudi aveva inizialmente ritenuto inadatto alla pubblicazione il memoriale di Primo Levi, la cui diffusione iniziò solo a partire dal 1958, appena tre anni prima del processo Eichmann. «Solo la televisione può farlo», ripete il Fruchtman di Martin Freeman quando si tratta di strappare il consenso alle riprese da parte del primo ministro israeliano Ben Gurion. Affermazione incontestabile, almeno nel momento in cui è stata pronunciata. Oggi, a oltre mezzo secolo di distanza, viene da domandarsi se la televisione sia ancora in grado di intervenire con la stessa forza e con immutata integrità morale. Per rispondere, però, ci sarebbe bisogno di istruire un altro processo.
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