sabato 24 novembre 2012
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«L’Iran non è solo questione nucleare. Se l’Europa decide di dialogare con il governo iraniano, non lo deve fare solo per non sentirsi minacciata. Non dimentichi la questione dei diritti umani e si sforzi di risolverla: è universale e prioritaria». Shirin Ebadi, la più nota avvocatessa iraniana, premio Nobel per la Pace nel 2003, si rivolge al nuovo, controverso Nobel e lo fa con forza e decisione, come le si addice. Perché la Ebadi si definisce, in questo momento, «megafono del popolo iraniano che non può essere lasciato solo». In Italia per dare testimonianza nel contesto di Science for Peace, ha anche presentato a Bracciano il libro di Marica Paolucci Tre donne, una vita, edito da Emi (pp. 144, euro 11,00).«Il motivo di questa crescente repressione è la paura del regime nei confronti del popolo. Il regime perde giorno dopo giorno credibilità e supporto dalla base popolare. La crescente povertà ne è la causa principale. Nel 2012 il valore della valuta interna (il tooman/rial iraniano, ndr) è crollato dell’80%; la fluttuazione di cambio è continua. I beni di prima necessità, dal pollo alla benzina, sono sempre più costosi, anche a causa delle sanzioni che si sono inasprite. Il terremoto che ha scosso il Paese nello scorso agosto a Tabriz e che ha fatto più di 300 morti e 3mila feriti è stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso. Il regime ha paura di una rivoluzione popolare». La condizione dei diritti umani individuali è più problematica di prima. Per le discriminazioni di genere, la storia è ben nota: «La giustizia e l’esercizio della giustizia in Iran sono una violenza contro la società. Nonostante le donne abbiano superato in numero e bravura gli uomini al concorso pubblico d’ingresso in università - dice la Ebadi - continua a non essere riconosciuto il valore della loro testimonianza nei processi e non viene concesso loro il risarcimento. Le donne iraniane sono colte, critiche e reattive: fanno paura al regime e il regime le mette a tacere». Sulla libertà di parola, il caso più recente è quello di Sattar Beheshti, il blogger morto il 3 novembre scorso per essersi esposto on line criticando l’establishment. Beheshti, 35 anni, è morto nel carcere di Evin. Dopo di lui, sono stati eseguiti altri arresti su ordine dell’ayatollah Sadeq Larijani. La stretta del governo nei confronti dei dissidenti è un deterrente efficace?«Lo è sempre stato. Ma, stavolta, i prigionieri politici stanno reagendo, anche in carcere. È peggiorata soprattutto la condizione degli avvocati che difendono i detenuti per motivi politici o religiosi. Penso alla collega Nasrin Sotoudeh che ha fatto parte come volontaria della ong che ho fondato (il Chrd, Centro per i difensori dei diritti umani, ndr). Nasrin, detenuta a Evin, ha iniziato il 16 ottobre uno sciopero della fame per protestare contro il divieto di incontrare la figlia tredicenne e il figlio di cinque senza la barriera di vetro che solitamente li separa. Così dal 22 ottobre Nasrin è ricoverata nella struttura medica interna al carcere di Evin e siamo tutti molto preoccupati. Nasrin è stata l’avvocato di molti detenuti politici. Non ha accettato di collaborare con l’intelligence iraniana e questo è il risultato. Al termine dei sei anni di pena, Nasrin sarà interdetta per dieci anni dalla sua professione. Dal giugno 2009 fino a oggi più di 50 avvocati che difendono i detenuti politici sono stati perseguitati dal regime».Chi difende gli avvocati arrestati? Perché la Sotoudeh ha fatto uscire dal carcere la sua memoria difensiva scritta su un fazzoletto?«L’albo professionale degli avvocati in Iran non ha il coraggio di difendere i propri membri. Da parte mia, faccio regolare rapporto all’International Union for Lawyers e alle Nazioni Unite».La giustizia iraniana colpisce duramente anche chi commette reato di apostasia, cioè chi abbandona lo sciismo per seguire un’altra fede. Escludendo il caso dei Baha’i che sono considerati fuorilegge per motivi costituzionali, negli ultimi anni c’è stata una stretta anche nei confronti dei cristiani. Il caso del pastore protestante Yussuf Nadarkani, liberato un mese fa da condanna a morte certa, ha fatto riaccendere le speranze...«La questione del pastore protestante Yussuf Nadarkani è emblematica. Yussuf era musulmano, convertito vent’anni fa cristianesimo. Questo è il suo reato e per questo è stato arrestato. È stato torturato affinché abiurasse. Ha rinunciato ad abiurare più volte e così è stato condannato a morte. Per fortuna, questo caso ha avuto molta eco a livello internazionale: Yussuf  è stato liberato su cauzione, altrimenti non sarebbe stato possibile salvarlo. C’è ancora un altro pastore nel braccio della morte, Behnam (di lui si sa solo che ha contratto un’infezione sanguigna in carcere e che è stato sottoposto a operazione chirurgica all’intestino, ndr) e, dopo la liberazione di Yussuf, sono stati eseguiti altri arresti (a Shiraz, il 18 ottobre, contro sette membri della "Chiesa d’Iran", ndr). Per la legge queste persone hanno commesso un reato. Ma è in atto una discussione su queste misure: nascono da un’interpretazione sbagliata dell’islam. Non stupisca il fatto che molti esponenti del clero iraniano siano contrari all’estensione di questa legge. Il cristianesimo è una religione accettata nel Paese e questo rigore appare come una distorsione del regime, una delle tante prodotte da un governo che non rispetta i diritti dell’uomo e che non rappresenta e difende nemmeno i suoi cittadini».
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