lunedì 3 dicembre 2012
​La riflessione del teologo Rowan Williams: troppo spesso il grande scrittore russo letto come paladino della «morte di Dio»
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Considerato tra i più autorevoli teologi contemporanei, Rowan Williams, primate dimissionario della Comunione anglicana, è un esperto di «questioni russe» avendo ottenuto un dottorato a Oxford (dopo gli studi di teologia a Cambridge) sul pensatore ortodosso Vladimir Lossky. Nel 2002 è diventato arcivescovo di Canterbury, incarico che lascerà a fine anno: gli subentrerà Justin Welby. Pubblichiamo stralci dell’introduzione del suo saggio edito da Borla Dostoevskij. Linguaggio, fede e narrativa. (L.Fazz.)

I romanzi di Dostoevskij continuano a riproporre con insistenza e senza vergogna la domanda di cos’altro sarebbe possibile se noi – personaggi e lettori – vedessimo il mondo in una luce altra, la luce offertaci dalla fede. È questa la tensione irrisolta nei romanzi dostoevskiani. Ma non è – come spesso viene dipinta – una tensione tra il credere e il non credere nell’esistenza di Dio. Dostoevskij è stato a volte cooptato al servizio di un agnosticismo angosciato quale quello che egli stesso confessava di essersi lasciato alle spalle. Vi sono lettori, le cui menti sono state profondamente formate da una cultura post-religiosa, i quali danno per assodato che l’irresoluzione dei racconti palesi un autore incapace di decidersi pro o contro la fede religiosa e – a dispetto di ogni professione di fede nei suoi scritti sia pubblici che privati – costantemente trascinato verso il dubbio e la negazione. Un commento di Dostoevskij in età precoce [«sono un figlio di quest’epoca, un figlio della miscredenza e del dubbio fino ad oggi e (ne sono piuttosto certo) fino al giorno della mia morte», lettera a Natalija Fonvizina, 1854] è stato citato a prova di ciò, come pure quello che è stato spesso interpretato come il ultimo e più grande romanzo nel raggiungere il fine presupposto, ovvero la difesa o il ripristino della possibilità di credere. William Hamilton, in un saggio degli anni Sessanta, sostiene che lo studio di Dostoevskij lo spinge decisamente a incamminarsi verso la teologia della «morte di Dio», dato che la fede a venire, quella destinata a emergere dal «crogiolo del dubbio», non aveva mai ricevuto una forma credibile nella narrativa dostoevskiana, e soprattutto ne I fratelli Karamazov.[…] Le costellazioni critiche di riferimento che Hamilton usa come bussola tendono a essere i commentatori non specialisti del primo quarto del XX secolo, primo tra tutti D. H. Lawrence, per i quali I fratelli Karamazov erano un campo in cui combattere le classiche battaglie della modernità e dell’emancipazione dalla tradizione. Troppe idee su Dostoevskij sono state generate isolando brani significativi o addirittura singole frasi, e trattando questi o quelle come la sua filosofia personale. Al crescere dell’influenza degli studi di Bachtin e con l’aumentare del lavoro critico su Dostoevskij, le questioni legate alla fede nei suoi romanzi finirono maggiormente in primo piano per molti critici. Prima, agli inizi del XX secolo, simili questioni erano state territorio privilegiato di caccia di saggi altamente impressionistici, per non dire omiletici, compresi quelli scaturiti dalla diaspora russa – i noti studi di Berdjaev, ad esempio, o Kinstantin Mocul’skij, o lo straordinario lavoro di Sestov su Dostoevskij e Nietzsche – o di studi esplicitamente teologici ad opera di pensatori protestanti o cattolici, come Paul Evdokimov o l’importante saggio di Romano Guardini. L’importanza di Dostoevskij per il giovane Karl Barth e per la formazione dell’ethos della «teologia dialettica» fu notevole.[…] Personalmente, ho dato per acquisito che Dostoevskij non voglia presentarci una serie di ragionamenti inconcludenti su «l’esistenza di Dio», siano essi pro o contro di essa, ma piuttosto un quadro romanzato di ciò che la fede e l’incredulità dovevano sembrare nel mondo politico e sociale del suo tempo. L’intenzione di Dostoevskij di scrivere a favore della fede non limita necessariamente, come è ovvio, la risposta o le conclusioni del lettore riguardo a quanto convincente egli risulti o quanto egli sia coerente nel perseguire il proprio fine. Ho dato tuttavia per assodato che, al fine di discernere che cosa sia in realtà facendo, sia necessario identificare il più possibile il movimento interiore e la coerenza del modo in cui tratta questioni legate a come vada immaginata la vita di fede. Il punto più importante, tuttavia, ha forse a che vedere con gli interrogativi che ho posto riguardo alla misura in cui siamo autorizzati a ritenere che la prospettiva di fede informi in maniera radicale sia il senso profondo che Dostoevskij ha di ciò che significa scrivere romanzi, sia la sua comprensione dell’interdipendenza tra la libertà umana, il linguaggio umano e l’immaginazione. Se l’ho letto correttamente, egli sposa una comprensione sia del discorso che della narrativa profondamente radicata in una sorta di teologia. Con questo sollevo la questione di quanto o in che senso si possa definire Dostoevskij un romanziere cristiano. Ogni suo romanzo è un esercizio di resistenza al demoniaco e di salvataggio del linguaggio. E tutto ciò tramite l’insistenza sulla libertà – la libertà dei personaggi in seno al romanzo di rispondersi a vicenda, anche quando questo sconvolge o delude totalmente ogni speranza si possa nutrice di esiti positivi o di lieti fini delle situazioni. Esso mette in scena la libertà che discute creando uno spazio narrativo in cui diversi futuri sono possibili sia per i personaggi che per i lettori. E nel farlo cerca di rappresentare i modi in cui il creatore del mondo esercita la propria «facoltà di autore», in cui genera dipendenza senza controllo.

Lo spartiacque di tale apologetica sta per l’appunto nella possibilità di rifiutare di riconoscere tale rappresentazione, oppure nel riconoscere che qualcosa di reale è rappresentato, tale da renderla una rappresentazione veritiera. La finzione narrativa è come il mondo: si propone alla nostra accettazione e comprensione senza costringerci ad esse, dato che la costrizione renderebbe impossibile al creatore di apparire quale creatore di libertà. Tutto questo può apparire un itinerario piuttosto lungo rispetto alla domanda ingannevolmente ovvia riguardo al fatto se Dostoevskij sia o meno un romanziere cristiano o ortodosso, ma l’esplorazione delle questioni riguardanti la fede, la miscredenza e la libertà ci aiutano a chiarire perché egli può essere il tipo di romanziere cristiano che è solo in quanto lascia sussistere nei suoi racconti il summenzionato livello di ambiguità riguardo al ruolo che la fede ha nell’offrire una soluzione durevole e sostenibile.

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