giovedì 23 marzo 2017
Intervista Il cantautore a 78 anni si rimette in gioco con un nuovo disco: «Con il brano “Nel vento” affronto la tragedia dell’aborto, raccontando i sogni di un bambino che non è mai nato»
Don Backy: «Contro l’aborto, canto per dire sì alla vita»
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Sarà che l’Italia della musica non è Paese per giovani: ma fa specie che venga da Aldo Caponi la faccenda più valida, e più coraggiosa, degli ultimi tempi della nostra canzone. Fa specie perché Aldo Caponi alias Don Backy in agosto compirà 78 anni: e però il suo Pianeta donna conferma quanto saper scrivere canzoni non sbiadisca nel tempo come nel tempo non perda vigore il coraggio, se uno ce l’ha. In fondo l’autore di Canzone, Casa bianca, L’immensità potrebbe starsene seduto a guardare in tv lo scempio dei talent: invece no, Don Backy scrive ancora e ancora osa. Perché a chiusa di un album di cultura musicale con testi puliti e arrangiamenti di gusto suonati davvero, dopo aver cantato con struggimento ( Brinderò) o classe ( Arriva Maria) vari aspetti della femminilità fra prog ( Rapsodia in red), canzone d’autore ( Rapsodia) e pop frizzante ( Farfalla), Don Backy attacca Nel vento. E tale ballad tesa dice così: «Avrei voluto anch’io una mamma per cui non fossi stato un dramma… Il primo giorno all’asilo avrei letto nel suo sguardo “Tranquillo amore, non ti perdo”… Chissà, avrei potuto salvare vite… Invece senza un pianto sono volato via nel vento». Canta l’aborto, Don Backy. Rimarca i valori della vita sfidando il nichilismo di certa cultura moderna, e pure giustapponendovi subito dopo «Pregherò per te che hai la notte nel cuor», la sua prima interpretazione del brano di Ben E. King che tradusse 55 anni fa per Celentano. Che scarto, rispetto alle denunce facili di Sanremo. Ma Don Backy sa scrivere canzoni, e quanto possano valere.

Don Backy, come nasce Nel vento?
«Nasce a Firenze qualche anno fa leg- gendo di una coppia che aveva lasciato morire un neonato perché non lo voleva. Lì ebbi il primo impulso a trattare il tema dell’aborto. In seguito ho riletto Lettera a un bambino mai nato della Fallaci e mi si è risvegliato un dolore intenso, che ho sentito necessario cantare. Con rispetto per chi non la pensa come me, e però anche per far sì che altri ci possano riflettere su».

Nonché mettendo quel brano accanto a Pregherò…
«Certo non è un caso… nel disco lo lego alla preghiera. Pregherò qui spera che Dio guardi anche alle tragedie dell’aborto ».

Si possono ancora scrivere canzoni forti, diverse?
«Penso di sì: forse però si sono esauriti gli autori davvero capaci di far riflettere anche in semplicità risultando accessibili ai meno colti, di solito i più bisognosi d’aiuto per capire la vita. Ma dopo Modugno o Endrigo la canzone è divenuta modo di far quattrini con la tecnologia che permette a chiunque strimpelli una chitarra di farsi un disco in cantina».

Lei si sente parte di una generazione finita?
«Mi sento l’ultimo dei Mohicani. Ma non mi ritengo un compositore: siamo partiti dal rock, ci bastava poco. Scrivo sempre sul giro di Mi, Paoli scrive sempre sul giro di Do. Dopo di noi è arrivata gente più colta che però è andata in cerca di armonie complicate, rendendo le melodie schiave di schemi. Ma una melodia si fa con poco, pensi alla canzone napoletana».

Perché da noi ci sono cantautori di A e altri di B?
«C’entra la politica. Io sono anarcoide, ma certo non di sinistra… L’immensità era parte esplicita di una quadrilogia sull’amore spirituale, e Sognando fu il primo brano in Italia sulla malattia mentale nel ’71: ma nulla fu notato, solo chi si schiera ha aiuti».

Sognandogliela incise Mina dopo cinque anni di no…
«Fu quel brano a farmi inserire tra i reietti. Ed è una storia vera: uno choc provato da bimbo a Pecorari vicino Salerno quando fuggivo dall’asilo passando di fianco al manicomio. Quei volti rasati, quelle mani che si allungavano… Flash riportatimi alla mente dopo un concerto a Roma nel ’71, quando vidi un ragazzo autistico e ancora quella malattia era senza nome. Lì scrissi il brano, che Detto Mariano mi fece incidere a patto di non entrarci per nulla: tutti avevano detto “No per carità, parlare dei matti”… Mina lo ascoltò per caso e invece lo incise. Però Mina poco tempo fa ha pure detto no a Nel vento… ».

La appaga proporre da anni i suoi Cd solo sul web?
«Per nulla. È pura passione, devo esternare quanto vivo. Stavolta almeno ho trovato Egea a distribuire questo disco di canzoni dedicate alle donne ».

A proposito: Mina la più grande donna della canzone?
«No, abbiamo perso di vista Milva: grande vocalità, potente, sicura, e intensità espressiva superiore. Le devo molto ed è stata grande: veniva da un paesello, è diventata una signora. In musica ma pure a teatro».

Cosa c’è nel futuro di Don Backy oltre al Cd nuovo?
«L’editore Clichy ripubblicherà a maggio Io che miro il tondo, che fu cinquant’anni fa primo libro di un cantante italiano. E MD edizioni riproporrà proprio Sognando, nella mia versione favola per ragazzi».

Mina nel ’76 incise la sua Nuda, con Sognando: lì si parla di fragilità, disagio davanti al successo. Era brano per Mina o autobiografia di Don Backy?
«Non ho mai scritto per altri, semmai faccio versioni al femminile come per Nel vento: vorrei fosse cantata da una donna interpretando la tragedia della madre che rinuncia al figlio. Quindi Nuda sì, sono io, siamo noi artisti. Tutti pensano di sapere chi siamo, nessuno sa cosa abbiamo davvero nel cuore».

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