giovedì 27 dicembre 2018
Fausto Colombo prende spunto dalla morte del piccolo Alan a Kos nel 2015 per riflettere su compassione e informazione: dove sta il limite?
Il rinvenimento del corpo senza vita pel piccolo Alan sulla spiaggia di Bodrum, isola di Kos

Il rinvenimento del corpo senza vita pel piccolo Alan sulla spiaggia di Bodrum, isola di Kos

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Il 2 settembre 2015 un bimbo che non ha ancora compiuto tre anni viene trovato sulla spiaggia di Bodrum come se stesse dormendo in una culla. Si chiama Alan Kurdi, appartiene a una famiglia turca partita da Aleppo a bordo di un gommone, nel tentativo di raggiungere l’isola di Kos. Un poliziotto si avvicina a controllare, capisce che non c’è più vita in quel corpo e si abbassa a raccoglierlo da terra nell’identico gesto che immaginiamo abbia compiuto Priamo dopo che Achille, commosso dalle lacrime dell’anziano uomo, gli ha concesso di riabbracciare Ettore.

L’azione del poliziotto non è soltanto la manifestazione di un sentimento di pietà umana, ma la tacita acquisizione del piccolo Alan nella sfera di una familiarità putativa: in quel preciso momento infatti, per trasposizione ideale, il bimbo diventa figlio adottivo del poliziotto e il poliziotto agisce come avrebbe fatto il padre del bimbo, se si fosse trovato al suo posto. Se tutto finisse qui, le due azioni – quella del morire e quella del soccorrere – mancherebbero di qualcosa, il cui potere attribuisce identità simbolica a quanto è accaduto sulla spiaggia di Bodrum. Per usare un titolo di una ventina di anni fa, non basta il naufragio se non c’è lo spettatore.

Ed è esattamente questo il tema su cui si concentra l’attenzione di Fausto Colombo in Imago pietatis. Indagine su fotografia e compassione ( Vita e Pensiero, pagine 120, euro 13). Il cuore del libro non riguarda tanto la presenza del dolore nel quotidiano di tutti – un discorso che tiene banco da sempre nelle menti di filosofi e teologi – ma il suo venire alla luce, il suo manifestarsi come narrazione che scaturisce non appena sulla spiaggia arrivano dei reporter e una di loro, Nilufer Demir, scatta una serie di foto che faranno il giro del mondo.

Da quel momento in poi la storia di Alan subirà la vertigine della globalizzazione, la sua immagine di naufrago diventerà un’icona dei migranti e il suo corpo senza vita acquisirà il ruolo di slogan politico, di provocazione umanitaria, di manifesto adatto ai popoli deboli. Dal piano strettamente tecnico, come lascia intendere Colombo, il discorso scivola sul piano etico. E su questo aspetto Imago pietatis incrocia una questione su cui le epoche passate si sono interrogate senza mai trovare una soluzione definitiva: fino a che punto le immagini uscite dall’obiettivo di Nulufer Damir – ma la domanda andrebbe posta anche sulle innumerevoli crocifissioni o deposizioni tramandate dall’iconografia medioevale e rinascimentale – si attengono alla sola esigenza testimoniale e da dove in poi invece non comincino a incamminarsi verso quella assurda abitudine che è l’esibizione gratuita del dolore.

Fotografare può essere un esercizio ambiguo: nasconde invece di svelare, mistifica anziché semplificare, riproduce il paradosso per cui narrare la morte di Alan può addiruttura restituire qualcosa di lui alla vita, sia pure una vita che non ha più parentela con quella precedente eppure perdura nel tempo. Da qui il valore epico-storico dello scatto fotografico, che apparentemente sembra denudare il cadavere del bimbo di quel sudario che si stende sui morti, sottrarlo a quel velo di discrezione da cui sarebbe più corretto fosse avvolto e darlo in pasto agli occhi avidi dei social con una rapidità che quasi spaventa.

Intorno a questo dato si gioca la credibilità e la liceità di qualsiasi mass media e in presenza di quelle comunità provvisorie, che si formano e si sfaldano nel breve volgere di un giorno, ognuno di noi è chiamato a interrogarsi sui motivi che spingono a rappresentare la pietà, con o senza l’aggiunta di sacralizzazione.

Di fronte a un’immagine che richiama inequivocabilmente la presenza del male, in effetti, ci si trova a un bivio: restare in silenzio (e immedesimarsi con chi ne è stato colpito, astenersi da qualsiasi atteggiamento che possa risultare irrespettoso) o ampliarne la fruizione, magari per prolungare la soglia di attenzione negli altri e trasformare in esperienza collettiva qualcosa che nasce nella sfera individuale. Il più delle volte scegliamo la seconda soluzione, se non altro perché raccontare un evento che terrorizza è un’azione che aiuta a liberarci dalla paura, riducendo di molto la difficoltà con cui sostenere ciò che di fatto è insostenibile.

Da sempre l’uomo racconta le tragedie adeguandosi a questo principio perfettamente connaturato in lui: l’aveva intuito Manzoni nel costruire la tragedia dell’Adelchi come una macchina di pietà e terrore. Manzoni analizzava questi fenomeni in chiave morale, a lui interessavano non tanto i processi di spettacolarizzazione, quanto i moti invisibili che accadono dentro il guazzabuglio del cuore (è suo il termine, in sostituzione del pascaliano abisso), in presenza di qualcuno che riceve il male anziché farlo. E ci sarebbe da chiederci come avrebbe reagito di fronte alle infinite moltiplicazioni di narrazioni traumatiche, messe oggi in atto tramite gli strumenti mediatici. Molto probabilmente avrebbe preferito chiudersi in un tragico corpo a corpo con Dio e lasciare che la mano getti la penna, come fa nel Natale del 1833.

Nel tempo in cui ci tocca vivere, invece, non tutto riesce a restare nel sottosuolo dell’inespresso e alla fine della grande recita che è ogni giornata ciascuno si porta nel letto i suoi errori, che non sono nulla dirimpetto alle tragedie vere, le storie di chi soffre o ha sofferto, quelle che non smetteremo mai di narrare.

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