giovedì 13 gennaio 2022
Silvia, nipote del grande giurista italiano, segue i genitori a Pechino, che scrivono per “l’Unità”. Lì va a scuola e cresce nell’utopia maoista, di cui resta traccia nei quaderni di bambina
Mao con un gruppo di studenti nel 1959

Mao con un gruppo di studenti nel 1959 - Ansa

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Una bambina di sei anni arriva in Cina nel 1953 con i genitori. Si chiama Silvia Calamandrei. Suo padre Franco e sua madre, Maria Teresa Regard, sono stati membri importanti della Resistenza romana e ora sono corrispondenti da Pechino de 'l’Unità', del 'Nuovo Corriere' e di 'Noi donne'. La lunga guerra civile tra i nazionalisti del Kuomintang e i comunisti di Mao si è conclusa da pochi anni. La nuova Cina comunista, che non ha ancora relazioni diplomatiche con l’Italia, è in fase di edificazione. Le ombre nere delle spie nazionaliste e dei 'cattivi elementi' popolano ogni fibra della società e si aggirano nella scuola dove i bambini, guidati da giovani maestre «piene di zelo», crescono «vigilanti e ansiosi di scoprire qualche malfattore». In quella scuola Silvia frequenta tre anni. È un’allieva modello: impara la lingua, apprende i caratteri. Unica bambina occidentale, si sente immersa e partecipe di quella calda comunità e dei suoi ideali. Quando nel 1955 il nonno Piero, padre costituente e giurista liberale che ancora oggi ci insegna cosa significhi coniugare giustizia e libertà, accompagnato dalla moglie giunge a Pechino alla guida della prima delegazione italiana, la piccola Silvia non si fa trovare al loro arrivo. Quella coppia così splendidamente borghese pareva la rappresentazione esemplare dei «diavoli stranieri». Figuriamoci poi la nonna, tanto elegante, che raccontava che a Firenze metteva le briciole sul davanzale per nutrire i passerotti; mentre la classe di Silvia era impegnata nella campagna maoista di sterminio di quegli uccellini (uno dei «quattro flagelli»). L’anno dopo è il «fatidico ’56». Con l’inizio delle divergenze nel movimento comunista internazionale e le accuse di revisionismo al PCI, i genitori tornano in Italia. Ma Silvia è ben fiera d’essere ammessa, poco prima della partenza, nei giovani pionieri. I quaderni di scuola di quella bambina riemergeranno nel negozio di un libraio che li ha trovati su una bancarella di Porta Portese che raccoglie fondi di soffitte. Come in un romanzo ben congegnato. Ma questa è realtà. Con tanto di mistero: perché finirono lì? Per scelta o per gesto non meditato di una madre che inconsapevolmente tendeva a rimuovere quel passato? Oggi quei quaderni sono preziosi. La piccola Silvia vi fa i suoi esercizi e annota, come in un diario, la vita della classe. Prorompe, dalle parole limpide di quella bambina di sei anni, una verità conturbante: la scuola come primo mattone nella costruzione di una società totalitaria. La descrizione di un’intera scolaresca mobilitata per «catechizzare all’ateismo» i figli di una famiglia cattolica, con i compagni di classe che vanno a casa loro «come una piccola squadra di propaganda» fa venire i brividi. Ma ci dice anche che il mastice del totalitarismo può essere impastato di buone intenzioni: una comunità avvolgente, il continuo richiamo alla gloriosa storia nazionale, l’entusiasmo educativo delle maestre, il farsi carico del destino degli altri per evitare che cadano nell’errore. I quaderni ritrovati serviranno a Silvia per riflettere «sull’incantamento » per la Cina che si era trasmesso per generazioni. L’incantamento della comunità di corrispondenti esteri a Pechino, in cui lei era cresciuta. Uomini e donne che per la libertà avevano rischiato la vita e che, lavorando in Cina, accettano quotidiane limitazioni contro cui, in Europa, sarebbero immediatamente insorti: i viaggi interni, le interviste, i contatti, costantemente controllati. Franco Calamandrei addirittura deve chiedere l’autorizzazione per intervistare il traduttore cinese della Divina Commedia! Sanno che, se fossero cittadini cinesi, sarebbero i primi a essere inviati nei campi di rieducazione, come in effetti accadrà a molti loro amici durante la rivoluzione culturale. Eppure, dichiarano il loro entusiasmo per quell’esperimento politico. Quanto è forte la voglia di incantamento – riflette oggi Silvia Calamandrei – quando si fonda su un’utopia. E quanto è difficile rinunciare all’incantesimo! Ma l’incantamento non riguarda solo i suoi genitori. Perché nel frattempo Silvia, immersa nella vita politica europea degli anni 70, ha creduto nella rivoluzione culturale. Ha sperato che, dopo lo stalinismo sovietico, la Cina offrisse «una nuova strada per proseguire la rivoluzione». Così, a partire dal 1974, va di nuovo in Cina per lunghi periodi di studio. Ne torna con un’intima disillusione, non dichiarata. Ci vuole l’amore intelligente di un padre per riconoscerla. Nell’aprile 1975, dopo aver incontrato la figlia al ritorno dal suo più lungo soggiorno, Franco Calamandrei scrive sul diario: «Conversazione a due con Silvia di ritorno da Pechino. Senso di squallore delle sue impressioni, e affanno stanco suo di dissimulare una delusione, una perdita di immagine là. Vorrei che avesse invece ragione». Ci vorranno altri decenni per una rimeditazione più profonda dell’incantamento. Ci vorrà l’incontro con intellettuali che avevano coltivato la stessa speranza e avevano poi subito la persecuzione delle guardie rosse. In particolare l’incontro con la scrittrice Yang Jiang. Lei che aveva vissuto i tempi in cui si bruciavano i libri, si rasavano i crani, si mettevano alla gogna i letterati, ora diceva: «La sofferenza accresce la consapevolezza». È la vera eroina del libro, a cui l’Autrice dedica le pagine più belle. Infine, la Cina di oggi: il suo intreccio di socialismo autoritario e capitalismo senza democrazia, il suo modello di sorveglianza continua (che la pandemia ha incentivato), la cittadinanza basata su crediti che premiano i buoni comportamenti. Un modello mondiale per il futuro? Di nuovo, in contesti nuovi e modi diversi, ritorna il tema del controllo totale dei cittadini. Chissà cosa direbbe nonno Piero.

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