mercoledì 31 gennaio 2024
Dopo la vittoria nel 2020 il cantautore di nuovoin gara con “Ti muovi”. Omaggio a De André nella serata delle cover. «Le mie radici a Taranto, terra che va aiutata»
Il cantautore Diodato, 43 anni, in gara a Sanremo 2024

Il cantautore Diodato, 43 anni, in gara a Sanremo 2024 - Foto di Alessio Albi

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Antonio Diodato ci accoglie negli studi della storica Carosello Records a Milano accennando qualche nota al pianoforte. «Lo suono come un bambino di 8 anni, mi serve per comporre» si schermisce il cantautore 43enne che dalla sua ha non solo un talento intenso e raffìnato, ma pure la modestia.

Diodato parteciperà in gara alla 74esima edizione del Festival di Sanremo con il brano Ti muovi , dopo la vittoria nel 2020 con Fai rumore (triplo platino), un brano che è entrato nella storia della musica italiana e nel cuore dell’Italia intera durante la pandemia. Ti muovi, scritto, composto e arrangiato dallo stesso Diodato è una ballad che si apre sempre più ampia raccontando le emozioni di un amore che sta finendo. Emozioni che, con la sua voce elegante, il cantautore regalerà anche nella serata del venerdì dedicata alle cover con Amore che vieni, amore che vai di Fabrizio De Andrè nel 25ennale della scomparsa, accompagnato dal cantautore britannico di origine genovese Jack Savoretti. Diodato torna sul palco dell’Ariston per la quarta volta dopo la partecipazione nel 2014 con il brano Babilonia tra i Giovani, e dopo aver pubblicato nel 2023 l’album Così speciale.

Diodato, dopo la vittoria clamorosa nel 2020 con Fai rumorec’è molta attesa per il suo ritorno all’Ariston. Emozionato?

L’ansia c’è sempre, ma spero di vivermela bene. Ti muovi è una canzone che mi piace molto e spero di farla bene. Ho pensato che sarebbe stato bello tornare a 10 anni dalla prima partecipazione al Festival, in quello che potrebbe essere l’ultimo anno di questo ciclo di Amadeus che abbiamo iniziato insieme con Fai rumore. Dopo che è uscito il mio ultimo album ho ricominciato a scrivere durante il tour, fra cui anche questa Ti muovi. Ma finché non mi chiudo nel mio studio casalingo, non mi convinco se un brano ne vale o meno la pena. Sono arrivato alla parte strumentale con gli archi e ho sentito un’esplosione. Mi son detto: questa parte andrebbe fatta con un’orchestra. Dove la trovo un’orchestra? A Sanremo…(ride. Ndr).

Anche questo è un brano molto intimo nei contenuti su un amore che sta finendo, ma che resta dentro: quanto è autobiografico?

Io sono sempre autobiografico, ma Ti muovi è il manifesto della condivisione che porto avanti da un po’ di anni. Ovvero interpretare un fiume di emozioni che siano comuni alla gente. Questa canzone è nata perché stavo provando delle sensazioni di un certo tipo, riaffioravano delle cose, delle frasi che ho detto e nello stesso periodo avevo delle persone molto vicine e care che vivevano storie molto tormentate, dure, estreme. Ho percepito molti punti di contatto con la mia storia e ho fermato queste emozioni in un brano.

Sarà contenuto in un nuovo album?

Questo è il primo passo di un nuovo capitolo. Ho sentito l’esigenza di fare un processo inverso rispetto al ciclo disco-tour. Le canzoni contenute in un album subiscono una trasformazione suonate dal vivo. Io ho una band che volontariamente non corrisponde a quella dei dischi, ho sempre voluto che il live fosse una cosa diversa. Ora ho pensato che sarebbe stato bello fissare questi brani, modificati grazie a incontri con la gente, con i luoghi, con i musicisti. Così con la mia band di 9 musicisti abbiamo suonato in presa diretta per un album che uscirà dopo Sanremo. Si tratta di versioni inedite di brani editi, soprattutto di quelli che negli album non hanno avuto riscontri evidenti, ma che nel live sono diventati importanti. Ci sarà anche una versione alternativa di Ti muovi e poi anche Amore che vieni, amore che vai.

Come mai ha deciso di rendere omaggio a De André all’Ariston?

E’ anche merito di Amore che vieni, amore che vai se dieci anni fa partecipai al Festival per la prima volta. Avevo fatto in quel periodo quella cover di De André che finì nel film di Daniele Luchetti Anni felici. Il regista andò da Fazio e io mi proposi di cantare live il brano in trasmissione. Mi risposero gentilmente di no, ma mi dissero che stavano preparando il Festival e che potevo provare a presentare qualcosa nelle Nuove Proposte. Io non ero uno molto da Festival di Sanremo, ma nacque Babilonia e andai all’Ariston. Amore che vieni aveva acceso un riflettore. Volevo unire i 10 anni di questo mio viaggio con De Andrè ai 25 anni dalla sua scomparsa, insieme a una star internazionale come Jack Savoretti per sottolineare quanto De André sia fra i più grandi artisti non solo italiani, ma mondiali

Diodato e il cinema. Lei ha appena vinto il Ciak d’Oro per la miglior canzone con il brano La mia terra per il film Palazzina Laf, diretto da Michele Riondino con cui condivide la direzione artistica dell’Uno Maggio Taranto Libero e Pensante.

E’ stata una delle esperienze più belle che ho avuto con il cinema. Michele ha fatto un film meraviglioso. Non mi aspettavo un film così da lui. Lo conosco bene e so quanto si accende sul dibattito sui quei temi legati all’ex Ilva che sono attuali in questi giorni, temi che sono carissimi anche a me. Invece ha girato un film che ha uno sguardo sorprendente, che utilizza il primo caso di mobbing collettivo in Italia per toccare la questione con una delicatezza che rende ancora più incisivo l’impatto in chi lo guarda. Era per me una evidente occasione per parlare della mia terra, cosa che ho sempre fatto tantissimo, ma meno nelle canzoni dove non sono stato così esplicito. Volevo raccontarla partendo dal mito della fondazione di Taranto da parte degli esuli spartani nel 703 avanti Cristo.

Ci racconta il suo legame con Taranto?

Quel racconto è anche un po’ il mio. Io sono nato ad Aosta e ho vissuto tanto in giro da bambino: cambiavo spesso casa, scuola, amicizie e dovevo ricominciare daccapo ogni volta. Mi sono trasferito a Taranto dove ho finito le medie e ho fatto le superiori che sono anni importati per la formazione, dove ho suonato anche nella mia prima band, e poi sono andato via. Ho vissuto 20 anni a Roma, ma mentre vivevo lì ho sentito un richiamo. Ho capito di essere un uomo senza terra, non riuscivo a mettere radici da nessuna parte. Le radici che sentivo erano quelle lì a Taranto, dove è nata mia madre e dove mi portava in vacanza tutte le estati. Soprattutto era una terra che aveva bisogno di aiuto. Nel momento in cui iniziava la “rivoluzione” tarantina e si cominciava a parlare apertamente di certi aspetti ho capito di avere un destino segnato.

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