venerdì 14 agosto 2020
La prima pugilatrice professionista dell’Iran è stata accusata di non avere rispettato le norme sull’hijab. Ma dall’estero dice: «Voglio andare alle Olimpiadi»
L’iraniana Sadaf Khadem

L’iraniana Sadaf Khadem - Reuters

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«Ho lasciato l’Iran con due valigie. Nient’altro. Ho perso tutto quello che avevo. Ho ricominciato una nuova vita da zero»: così, in maniera brutalmente sincera, si è espressa la giovane boxer Sadaf Khadem, in un’intervista al The Guardian lo scorso luglio. L’atleta, nata a Teheran il 23 giugno del 1995, è diventata, nell’aprile del 2019, la prima pugile di origine iraniane a combattere un match professionistico, vincendo tra l’altro l’incontro in tre riprese, contro la francese Anne Chauvin. Quella che sarebbe dovuta essere una serata di gloria e festeggiamenti, dopo anni di sacrifici e sforzi, neppure immaginabili da un pugile europeo, si è trasformata, però, in un autentico incubo a occhi aperti. L’allenatore di Sadaf, Mahyar Monshipour, infatti è stato informato, poco prima del rientro in patria, di un mandato d’arresto che pendeva su di lui e la sua atleta, per aver infranto la legge iraniana. La giovane boxer, che ha disputato il match in shorts e canottiera, sarebbe accusata di non aver rispettato la norma che obbliga le donne a portare l’hijab, mentre il suo coach Mahyar, ex campione del mondo di boxe, sarebbe sospettato di presunta complicità. Il condizionale, in situazioni diplomatiche assai complesse, che riguardano politica, morale, religione e genere sessuale, è più che mai d’obbligo. A nulla è servita la mediazione del ministro dello sport francese Roxana Maracineanu, ex nuotatrice professionista, e le parole di Hossein Soori, a capo della Federazione pugilistica iraniana, che ha assicurato l’opinione pubblica internazionale sulla non veridicità delle accuse contenute nel “presunto” mandato d’arresto. Sadaf ed il suo coach non sono ancora potuti rientrare nella capitale Teheran.

«La Francia è la mia seconda patria, ma amo il mio paese, la mia cultura, le mie origini… Non ho dimenticato di essere iraniana». Sadaf, infatti, nella lunga intervista rilasciata al giornalista d’inchiesta Donald McRae (una delle penne più prestigiose del The Guardian) non nasconde il suo desiderio di rientrare, quando sarà possibile farlo, con estrema sicurezza, in patria. «Parlo tutti i giorni con mia madre su Whatsapp, ma è una situazione paradossale che non ha nulla a che vedere con la realtà. Combatto anche per le donne come lei». Grazie all’evidente crescita da un punto di vista sportivo e professionale lontano dall’Iran (dove le limitazioni per un’atleta donna sono più che mai rigide e severe), che l’ha portata a ottenere 11 vittorie nei 13 incontri disputati, Sadaf sogna di partecipare alle Olimpiadi di Parigi previste per il 2024. «Poco importa se dovrò rappresentare la nazionale francese o quella iraniana. La partecipazione alle Olimpiadi è il sogno di ogni atleta. Sarebbe una vittoria personale indimenticabile ed unica. Lotto per un’ideale». La 25enne originaria di Teheran si è innamorata della nobile arte della boxe in maniera quanto mai casuale e imprevedibile, grazie al film del regista indiano Omung Kumar, dedicato alla pugile indiana Mari Khom, simbolo sportivo e sociale del variegato macrocosmo asiatico. «Lo studio dedicato agli incontri e la dirompente gestualità (dentro e fuori dal ring) di Muhammad Ali ha fatto il resto. Ora mi ispiro ad Anthony Joshua – due volte campione del mondo e attuale detentore dei titoli mondiali Ibf, Wba, Wbo e Ibo – e sogno di poter combattere in Inghilterra in un prossimo futuro. Sarebbe fantastico». Le qualità umane, sportive e professionali dimostrate in questi anni di carriera, possono far sì che questo desiderio utopico si trasformi in un obbiettivo realistico e raggiungibile. Sadaf Khadem non ha nessuna intenzione di fermarsi nella sua battaglia, dentro e fuori dal ring, vicino o lontana dalla sua Teheran.


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