sabato 22 ottobre 2022
A 60 anni dalla crisi dei missili sovietici nell’isola caraibica l’ambasciatore Sebastiani ricorda il ruolo che ebbe l’invito al dialogo di Giovanni XXIII
Un aereo della marina statunitense sorvola un cargo sovietico con velivoli Ilyushin Il-28 imballati sul ponte, durante la crisi di Cuba

Un aereo della marina statunitense sorvola un cargo sovietico con velivoli Ilyushin Il-28 imballati sul ponte, durante la crisi di Cuba - -

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Le fotografie in bianco e nero e i documenti declassificati custoditi presso l’Ufficio storico del Dipartimento di Stato americano raccontano la storia dei tredici giorni che potevano cambiare il volto del mondo. Carteggi e informazioni ripercorrono quel 22 ottobre 1962 quando il presidente degli Stati Uniti John Fitzgerald Kennedy parlò alla nazione nelle ore tragiche di quella che sarebbe stata ricordata come la 'crisi dei missili di Cuba'. Sessant’anni dopo, in pieno conflitto ucraino, si comprende bene la preoccupazione di allora alla vista del sito di lancio di missili a San Cristobal, a Cuba, scattate dagli aerei-spia U-2. L’immediata convocazione del Consiglio di Sicurezza dell’Onu, gli sforzi del Segretario generale delle Nazioni Unite U Thant, ma soprattutto la tenacia di Giovanni XXIII fecero il resto. Con una lettera agli ambasciatori di Washington e Mosca e un radiomessaggio trasmesso attraverso Radio Vaticana papa Roncalli richiamò il mondo esortando alla pace, ma quanto incise l’azione diplomatica della Santa Sede in quei momenti? «Molto - sottolinea Pietro Sebastiani, già ambasciatore d’Italia presso la Santa Sede e una vita dedicata alla diplomazia - . Giovanni XXIII fu anche un fine diplomatico. La sua esperienza ventennale all’estero marcò la curvatura del pontificato: fiducia, dialogo, comprensione reciproca, umiltà. Nel ’62 la Santa Sede non aveva rapporti diplomatici né con l’Urss, nonostante stesse iniziando una ostpolitik vaticana, né con gli Usa, e il suo canale, oltre quello ecclesiastico, passò per gli ambasciatori dei due Paesi al Quirinale che ricevettero in anticipo il radiomessaggio del 25 ottobre. Quel Pontefice capace di rivolgersi non solo ai cattolici ma a tutti gli uomini, era percepito equidistante, di indiscussa autorità morale e spirituale, «coscienza del mondo» per il 'Washington Post', e quindi cruciale per la soluzione della crisi. Come scrive Roncalli nel suo diario, glielo riconobbe subito Wladyslaw Gomulka. Poi i messaggi di Kennedy, gli auguri di Natale di Chrušcëv riportati da 'La Pravda' e la visita di sua figlia a Roma, infine la nomina del Times a uomo dell’anno «per aver dato al mondo intero quello che non potevano dargli né la diplomazia né la scienza: il senso dell’unità della famiglia umana».

L’ambasciatore Pietro Sebastiani

L’ambasciatore Pietro Sebastiani - -

La tensione si allentò anche quando il capo del Cremlino Nikita Chrušcëv accolse la proposta di U Thant di una mediazione. Le navi sovietiche, con a bordo i missili, intenzionate a forzare il blocco navale Usa, tornarono indietro e il mondo tirò un sospiro di sollievo. Quale insegnamento trarre dalla crisi sotto il profilo diplomatico e storico?

La primazia del dialogo: parlare ma soprattutto ascoltare. 'Bypassare', se necessario, l’irrigidimento e l’ispessimento del sistema arterioso internazionale, le stenosi diplomatiche e militari, per non scivolare quasi automaticamente in un conflitto: dopo Cuba parte la linea telefonica diretta Washington- Mosca. E l’imprescindibilità del multilateralismo con un sistema internazionale (Onu, Fmi, World Bank, sistemi regionali come l’Ue) che funga da stanza di compensazione dei contrasti e da architettura riconosciuta del convivere delle Nazioni, come avvenne sino al 1989 e che oggi invece difetta. Per la Santa Sede, infine, segnò la consacrazione dopo i Patti del ’29 del proprio ruolo internazionale, poi affermatosi definitivamente con i primi viaggi all’estero di un Pontefice, Paolo VI, e soprattutto con la Conferenza di Helsinki del ’75 sulla Sicurezza in Europa.

Un ruolo centrale lo ebbe naturalmente Kennedy. Ci fu un asse con Giovanni XXIII?

Una forte convergenza. Giovanni XXIII non aveva mai incontrato Kennedy che era stato durante la campagna presidenziale e a inizio mandato eccessivamente attento a non essere identificato come il presidente cattolico. Kennedy intuì, grazie anche al suo consigliere Sorensen e al fratello Robert che teneva il filo con l’ambasciatore russo, che un appello del Papa avrebbe potuto sbloccare la situazione.

Una volta scongiurato il rischio gli Usa chiesero lo smantellamento delle basi a Cuba che venne accettato dall’Urss. Dal canto suo Kennedy garantì che gli Usa non avrebbero invaso l’isola. Quali ricadute ebbe sull’opinione pubblica americana e sulla politica estera Usa la crisi dei missili di Cuba?

In politica estera gli Usa avviarono già nel ’63 accordi e negoziati sui nuovi armamenti nucleari e sulla sicurezza globale che avrebbero positivamente marcato i decenni successivi. L’opinione pubblica americana fu scossa come non mai dal rischio della rottura dell’equilibrio del terrore. Budapest nel ’56, Berlino del ’61, ecc. avevano bruciato in fretta l’attenzione e così accadde con la crisi cubana. Si imposero di nuovo presto temi interni: la rivolta studentesca, le divisioni razziali, la fine dell’espansione del benessere generalizzato. Perché in fondo l’America profonda, e i media che la riflettono, era ed è tuttora poco interessata ai temi internazionali.

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