
Andrea Mariconti, Neuma VI, bronzo a cera persa, 2018, particolare
A Cambridge nel 1911-1912, quando il trentenne viennese Ludwig Wittgenstein (ex studente di ingegneria a Berlino e Manchester) incontrò il professore di filosofia Bertrand Russell, George Edward Moore, il londinese coetaneo e collaboratore di Russell fin dagli anni Novanta, diventava lettore di Mental philosophy and logic: aveva già pubblicato, nel 1903, i Principia Ethica, il testo che avrebbe costituito uno dei fondamenti dell’“Atomismo logico”, la scuola filosofica nata dall’incontro tra Wittgenstein e Russell e alla quale lo stesso Moore partecipò in modo decisivo.
Era una posizione filosofica che puntava a ridare dignità al metodo sperimentale della scienza moderna, dopo un secolo di idealismo, affermando che le uniche proposizioni sensate in ambito filosofico sono quelle verificabili empiricamente e logicamente coerenti. Non tutti sanno, però, che al centro degli interessi di Moore, mentre scriveva i Principia, c’era la stessa questione che, a metà Ottocento, occupava le menti dei giovani della sinistra hegeliana, vale a dire la domanda sulla religione cristiana, che diede una connotazione materialistica all’ateismo che i giovani hegeliani avevano in parte mutuato da Hegel: allora, nel 1840, Ludwig Feuerbach scriveva, nell’Essenza del cristianesimo, che il rifiuto di quella che riteneva l’alienazione religiosa era la via per la riappropriazione della vera essenza umana (da lui considerata come solo materiale); Moore, all’alba del Novecento, si diceva preoccupato di giustificare la propria scelta agnostica, compiuta già negli anni universitari di Cambridge, quando era entrato a far parte della società segreta degli Apostles, alla quale aderirono Russell e Wittgenstein, ma anche John Maynard Keynes, il noto economista, inventore del Welfare State e collaboratore del Presidente Usa Roosevelt nell’ideazione del New Deal all’indomani della crisi del 1929.
La gran parte dei saggi di Moore sul tema della religione o non sono mai stati tradotti o, in alcuni casi, sono rimasti inediti anche in lingua inglese. La loro pubblicazione, per Morcelliana, contribuisce quindi a colmare un vuoto importante, non solo per il pubblico italiano, nella comprensione di una delle correnti principali della filosofia europea e nordamericana del Novecento (Scritti su etica e religione, a cura di Sergio Cremaschi e Massimo Reichlin, pagine 270, euro 24,00): di tale corrente siamo adesso in grado di comprendere meglio il fatto che il pensiero di uno dei suoi fondatori (Moore appunto) non può essere del tutto ridotto a quella impostazione atomistica (poi denominata “Filosofia analitica” a partire dal Tractatus logico-philosophicus di Wittgenstein del 1922), in quanto contrasse un debito col neoidealismo britannico della seconda metà dell’Ottocento.
Moore, almeno fino alla pubblicazione dei Principia Ethica del 1903, aveva trovato nei neoidealisti Francis Bradley e John Mc Taggart il sostegno necessario per affermare, contro il materialismo tardo-ottocentesco di Charles Darwin e dei suoi seguaci (Herbert Spencer e Thomas Huxley), che la nozione di good non fosse riducibile a nessuna proprietà naturale. Ma il neoidealismo gli era anche servito per una giustificazione non materialistica dell’agnosticismo, in forza della quale esso veniva distinto dall’ateismo: infatti, per Moore, l’agnosticismo non presuppone il materialismo (cioè l’affermazione che esiste solo la materia sulla quale si basa l’ateismo) e quindi implica non tanto la pretesa di sapere che Dio non esiste, quanto la constatazione del fatto che non abbiamo finora alcuna prova della sua esistenza.
L’assenza di supporto razionale caratterizzava, secondo Moore, anche l’opzione ateistica: anche gli atei non possono esibire prove della loro posizione, vale a dire dell’affermazione che Dio non esiste. E, quindi, le due opzioni (religiosa e ateistica) si troverebbero sullo stesso piano di legittimità, in quanto entrambe prive di supporto razionale: con la differenza, però, che, tra le due, solo l’opzione religiosa risulterebbe dotata di una motivazione valida (per quanto non razionale), consistente in un bisogno di credere che, sul piano psicologico, è una «necessità assoluta».
Moore avrebbe preso le distanze anche dal neoidealismo, orientandosi, già a partire dal 1903, verso l’affermazione dell’assoluta indipendenza dei fatti fisici da quelli di coscienza: e concependo quindi l’etica quale disciplina oggettiva, che avrebbe avuto come compito non lo studio del comportamento umano, ma l’analisi delle asserzioni concernenti quelle qualità reali delle cose che si dicono “beni”. Tra il 1918 e il 1919 fu Presidente dell’Aristotelian Society di Londra; nel 1921 divenne direttore di “Mind” (la più importante rivista filosofica inglese) e, al termine del periodo di insegnamento a Cambridge, fu negli Stati Uniti dal 1940 al 1944, dove tenne una serie di corsi in varie università, contribuendo alla diffusione della filosofia analitica in Nord America. Tornò poi a Cambridge, dove (sposato e con due figli) condusse vita ritirata fino alla morte, avvenuta nel 1958.