lunedì 30 maggio 2022
Al Festival èStoria di Gorizia il nipote Lorenzo ricorda il padre di suo padre, ucciso a Piazzale Loreto: «Era la storia. Ma nella mia famiglia si era scelto di rimuoverla»
Pavolini appoggiato alla carlinga di uno dei Caproni Ca.101 della squadriglia di bombardieri La Disperata

Pavolini appoggiato alla carlinga di uno dei Caproni Ca.101 della squadriglia di bombardieri La Disperata - WikiCommons

COMMENTA E CONDIVIDI

Di suo nonno non sapeva nulla, in casa si era solo accennato alla sua “morte in guerra”. Poi la scoperta fatta a scuola da una foto su un testo di storia: i famosi corpi di Mussolini, Claretta Petacci e alcuni gerarchi fascisti impiccati a testa in giù a piazzale Loreto nell’aprile del ’45 a Milano. “Sotto la foto tra i nomi di quei corpi c’era Alessandro Pavolini. Ho saputo così chi era mio nonno”. Lorenzo Pavolini, scrittore, autore teatrale e radiofonico, ha ripercorso per il Festival èStoria di Gorizia che cosa significhi portare il nome di uno dei più famigerati gerarchi fascisti, il numero due del regime, l’uomo che dopo la caduta del duce si dimostrò più intransigente di lui e fondò le Brigate Nere della Repubblica Sociale Italiana. Soprattutto l’uomo che, ucciso a Dongo, finì appeso accanto a ciò che restava del cadavere del duce nella mattanza di piazzale Loreto. “Era un’immagine che stava sul libro mio ma anche dei miei compagni, in fondo apparteneva a me come a loro. Era la storia. Ma nella mia famiglia si era scelto di rimuoverla”. Ne parla a Gorizia, la città che più di ogni altra – sottolinea Pavolini – può capire le tragedie della storia, le cicatrici che lascia e il meccanismo della rimozione, “ciò che traumatizza e fa soffrire si tende a dimenticarlo. Il primo ad aver rimosso, l’ho capito dopo, era stato mio padre, il cui padre era stato fucilato quando lui aveva solo 7 anni”. E non una fucilazione da eroe, “fucilato dagli italiani, con tale disprezzo da esporre il suo corpo come simbolo…”. Certo non era facile, e il compito di parlargli di quel nonno era stato semplicemente demandato. Prima o poi avrebbe saputo.

Oggi quella foto è nota a tutti, ma negli anni ’70 e ’80 era ancora tabù. La rottura degli argini avvenne addirittura in pieni anni ’90, con il documentario di Nicola Caracciolo “I 600 giorni di Salò” e con gli impressionanti “Combat-Film” trasmessi da Raiuno nel 1994, che tanta polemica sollevarono per la crudezza delle immagini mai viste prima (anche quelle dell’autopsia sul cadavere di Mussolini). “Vederle fu un trauma per tutti gli italiani, quei corpi appesi a Milano scioccavano, ma anche attiravano, li si guardava. Tanti anni dopo sono partito per la mia ricerca, spinto dal fatto che molti, a causa del mio cognome, mi facevano domande sul padre di mio padre (così lo chiama, più spesso che “mio nonno”, ndr): si pensava che dovessi saperne di più perché ero Pavolini, in realtà non sapevo nulla”.

C’è un’età in cui si diventa adulti e non è la stessa per tutti. Per Lorenzo Pavolini è arrivata sui 40 anni, “quanti ne aveva il padre di mio padre quando fu fucilato: era giunto il momento di rispondere senza farfugliare, avendo gli elementi, sapendo cosa dire”. Non ha fatto una ricerca negli archivi, quella è compito degli storici, e la figura di Pavolini era già studiata in lungo e in largo, la sua era una ricerca intima, fatta dal figlio del figlio, che doveva capire. E che aveva maturato la consapevolezza che “le colpe dei padri non ricadono sui figli e tantomeno sui nipoti. Io, che non sono responsabile delle azioni di mio nonno, lo posso studiare alla giusta distanza e provare la pietas per le sue vittime. Ho saputo affrontare la tigre camminandole accanto”.

Proprio Accanto alla Tigre è il titolo del libro in cui Lorenzo Pavolini ha raccontato in forma di romanzo autobiografico la sua scoperta graduale, i tanti perché, le risposte che ha dovuto darsi (edito da Fandango e poi da Marsilio). Si è chiesto che cosa passi nella testa di un giovane che ha tutto per essere felice e invece fa una scelta così incomprensibile: Alessandro Pavolini era figlio di un docente universitario di sanscrito che parlava 32 lingue, era un giovane coltissimo, cresciuto in una famiglia fiorentina dalla vita serena e agiata, studente modello, giornalista di pregio, scrittore raffinato su riviste come Solaria, cultore d’arte. Agli inizi della carriera nel Partito fascista aveva istituito l’ancora oggi glorioso Maggio Musicale Fiorentino e dotato Firenze della stazione di Santa Maria Novella… Che bisogno aveva di scegliere una vita tanto estrema e violenta? “Dovevo capire i motivi, che cosa lo ha attratto? Questa è stata la molla del libro”.

Non era facile, specie per un nipote. “Se racconti la parte bella di Pavolini, quella del Maggio Musicale Fiorentino o delle opere letterarie, pare che lo assolvi da misfatti che sfiorano i crimini di guerra, ma che c’entra? Tutti gli esseri umani hanno fatto qualcosa di riuscito… A me interessava superare questa difficoltà dei pesi e delle misure. La stessa che anche a livello nazionale per decenni ci ha divisi: è fondamentale capire perché la maggior parte degli italiani è stata fascista”. La domanda è la stessa, che cosa li ha attratti? “Il fascismo era una cultura sbagliata, ha dato pessimi risultati, allora come aveva potuto innervare i totalitarismi di mezza Europa, manipolando la cultura e la mentalità attraverso la propaganda?”.

Fanatico fino all’ultimo respiro, più deciso del duce stesso a non mollare anche quando tutto era perduto, Pavolini fu più fedele alle leggi razziali che all’amatissimo fratello maggiore Corrado, con il quale aveva condiviso la poesia, il teatro, le passioni e le amicizie. Corrado nel ‘21 si era innamorato di Marcella Hannau, ebrea triestina, e l’aveva sposata. Dovrà rifugiarsi con lei a Cortona per sfuggire alla deportazione. “Corrado fu il mio nonno vero, perché sopravvisse alla guerra, Marcella poi è diventata una traduttrice bravissima… Assurdo, mentre suo fratello si nascondeva per salvarsi, mio nonno era ministro a Salò. Il problema è la coerenza, non sempre è un valore positivo, bisogna vedere a cosa si è coerenti”.

La coerenza, il demone di Pavolini. Messo da parte dal duce, destituito dal ministero nel febbraio del ’43, avrebbe potuto prendere le distanze e salvarsi, “invece si getta nelle azioni orripilanti delle Brigate Nere, dei 15 partigiani fucilati e lasciati in piazzale Loreto sotto il sole d’agosto nel 1944, dei cecchini organizzati a Firenze... Poteva uscirne e non lo fece. Cos’è la coerenza? Non è meglio essere incoerenti? Cambiare idea? Capire che era tutto un delirio adolescenziale e trasformarsi? Si può pure crescere nella vita”. A questa “coerenza” si rifanno oggi i giovani di estrema destra che vicino a casa sua a Roma, nei pressi della sede in cui è nata Casa Pound, sui muri scrivono “Pavolini eroe” e fanno leva su queste figure che “vanno fino in fondo”. Così come i coetanei di estrema sinistra, anche loro attratti da “coerenze” adolescenziali mai cresciute. “Da ragazzo, negli anni in cui i miei coetanei sceglievano la lotta, io ho scelto il disimpegno. Nel tirare sampietrini in fondo c’è sempre l’idea che partecipare alla storia significhi esercitare la violenza. Esiste un altro modo”.

Oggi ha quasi 60 anni e finalmente, grazie a questo libro, anche lui ha celebrato la sua liberazione. “Negli anni della scuola avere in famiglia una bella storia partigiana da raccontare era importante, avrei voluto averla anch’io, invece... Ricordo l’ombra che passò nello sguardo di Fernanda Pivano, per me un mito, quando sentì il mio cognome. E una sera che presentavo il libro a Firenze, e ovviamente ero molto teso, venne una signora il cui padre era stato ucciso dai cecchini di mio nonno. Poter affrontare tutto ciò con equilibrio è stata la mia liberazione”. Capiamo cosa intende. “La Liberazione avverrà davvero per tutti solo quando riusciremo a raccontarci perché siamo stati un popolo fascista”.

© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI

ARGOMENTI: