mercoledì 2 marzo 2022
Il fotoreporter racconta la sua esperienza con i disagi umani e sociali: «Come si fotografa la sofferenza? Passando molto tempo con chi soffre. Mi interessa conoscere l'uomo nella sua profondità»
Il fotografo e fotoreporter Valerio Bispuri

Il fotografo e fotoreporter Valerio Bispuri

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Come nasce una storia? Come si conduce un reportage fotografico? Quale distanza deve mantenere un fotografo rispetto a ciò che sta documentando? Sono alcune delle domande a cui prova a rispondere Valerio Bispuri, fotoreporter pluripremiato che da oltre vent’anni porta su alcune delle principali testate internazionali storie di uomini e donne che vivono in Paesi dove le disparità sociali scavano solchi ed erigono barriere. Di questo parlerà il suo incontro di sabato a Book Pride (ore 17.30, Sala Cristina Campo, con Francesca Adamo e Marco Damilano) e di questo parla il suo libro Dentro una storia. Appunti sulla fotografia (Mimesis, pagine 150, euro 14), una sorta di bilancio di vent’anni di lavoro e insieme un metodo, una cassetta degli attrezzi per imparare il mestiere di raccontare per immagini, andare in profondità con una foto e imparare a usare e dosare tempo e coraggio.

«Ho sempre visto la fotografia come un guardare attraverso il mondo con la lente d’ingrandimento delle nostre emozioni – spiega Bispuri –. È un gesto che diventa forma, uno spazio che si interpone agli angoli remoti delle nostre linee interiori». Angoli remoti che per Bispuri non sono solo metaforici, perché nelle sue foto ci sono aspetti insieme umani e di denuncia, storie di emarginati, ultimi, rifugiati, invisibili dall’Africa, dove ha approfondito il tema della malattia mentale, ma anche dall’Asia, dal mondo Rom, dal Sudamerica, dove ha lavorato a lungo sulle carceri (dieci anni e 74 strutture detentive, oltre a un altro lavoro sulle prigioni italiane tra i carceri di Poggioreale, San Vittore, Regina Coeli e Ucciardone). «L’idea degli ultimi e dei dimenticati è stata sempre dentro di me – dice –. Quando viaggiavo cercavo di capire la parte più sofferente dei luoghi, con una curiosità innata e una fortissima esigenza di fare qualcosa di importante. Perciò quando mi viene chiesto perché fotografo la sofferenza, posso rispondere solo che il vero mondo è lì. A me interessa capire chi sono veramente i soggetti che fotografo, mi interessa l’essere umano che soffre e che lotta».

Ma come si fotografa la sofferenza? Cosa serve per farlo con la giusta accortezza e delicatezza necessarie?

Il tempo è la caratteristica più preziosa. Passare molto tempo con i soggetti fotografati, a volte anche senza fare nulla, stare semplicemente con loro, stabilire una fiducia, conoscerli e conoscere sé stessi, imparando a bilanciare tra le nostre emozioni e la realtà. Io non mi considero solo un fotografo, perché racconto la realtà finalizzata al mio lavoro. Non mi considero un artista, per me la fotografia è semplicemente il mezzo con cui mi trovo meglio a raccontare la realtà, con pazienza e coraggio. Il fotoreporter è un po’ giornalista, un po’ antropologo, ma anche investigatore.

Tra le tante realtà che ha raccontato, una delle più significative è la malattia mentale, iniziata con un percorso in Africa nel 2017 e sviluppata ulteriormente negli ultimi anni.

Con il Covid si è aperto un mondo sulla malattia mentale e ho iniziato a lavorare su questo tema anche in me stesso, con alcuni permessi per ospedali e case famiglia. La cosa più importante che ho imparato stando a contatto con loro è il senso del tempo. Non sentono quasi mai la noia, non sentono lo scorrere del tempo. Noi andiamo ai mille all’ora tutti i giorni, ma stando con loro si deve rallentare, si deve stare al loro tempo, che è tutto interno, per andarsi incontro, trovarsi e capire un po’ di più.

Tra i lavori più importanti, poi, un progetto in cui ha fotografato i sordi, una delle sue più grandi sfide. Perché?

Non c’è visibile nella loro sordità, per cui ho dovuto cambiare modo di scattare. Ci ho messo mesi per realizzare la prima foto, mi sono fatto creare dei tappi in silicone e ho indossato cuffie da lavoro che non mi facessero sentire rumori, né la mia stessa voce. La chiave è arrivata poi quasi un anno dopo, ribaltando la prospettiva e raccontando il loro rumore e non i loro silenzi.

E ora, quali sono i prossimi soggetti su cui posare lo sguardo?

Concluso questo lungo lavoro sulla malattia mentale, in dirittura d’arrivo, mi vorrei occupare di infanzia dimenticata e orfanotrofi.

Il "mandato" è più o meno sempre lo stesso, capire quando è il momento giusto di scattare, capire qual è la distanza giusta da una scena...

Ci si deve sempre domandare: questa fotografia aggiunge o no qualcosa a quello che sto raccontando? ©

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