venerdì 8 giugno 2018
A colloquio con la violoncellista che riporta alla luce un repertorio dimenticato. «Nei Concerti di Castelnuovo Tedesco e dei due Malipiero tra tante differenze di stile vince lo spirito lirico»
Silvia Chiesa e la grande anima musicale del '900 italiano
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Ci sono voluti decenni ma la musica antica, da cosa per pochi appassionati, oggi è un fenomeno che cattura molti giovani musicisti, appassiona un pubblico in crescita e genera festival. Chissà che non accada un giorno anche per il Novecento italiano. Come un tempo quello rinascimentale e barocco, è un repertorio che resta in gran parte tra le pagine degli spartiti e degli studi musicologici. Per una serie di ragioni storiche e non ultime ideologiche, la musica della prima metà del secolo scorso giace in un cono d’ombra da cui a più riprese diversi alfieri, anche importanti, cercano di farla emergere. Tra i più convinti è la violoncellista Silvia Chiesa, che ha da poco pubblicato insieme all’Orchestra della Rai un cd con i Concerti di Mario Castelnuovo Tedesco (in occasione del 50° anniversario della morte del compositore), di Gian Francesco Malipiero e (in prima registazione mondiale) di Riccardo Malipiero. L’album, che viene presentato oggi a Milano al Museo del ’900 (ore 17.00) da Silvia Chiesa e il musicologo Alessandro Turba, è la terza tappa di un progetto iniziato con i due Concerti di Rota e proseguito con Pizzetti, Casella e Respighi.

Sono tre concerti importanti, ma anche molto diversi tra loro.

«E distanti cronologicamente: i primi due sono del 1935 e 1937, il terzo del 1957. Ho deciso di accostarli per dare un’immagine di venti anni di musica in Italia».

Come li descriverebbe?

«Quello di Castelnuovo è il più lirico e insieme il più semplice nei contenuti, pur essendo di grandi dimensioni. Gianfrancesco Malipiero è di spirito neoclassico. Riccardo Malipiero è concettoso, introverso ma di grandi contenuti».

Che idea di Novecento ne esce?

«Da strumentista, offrono la possibilità di conoscere le tecniche espressive e compositive con cui veniva interpretato il violoncello. Castelnuovo Tedesco lavora in maniera molto ardita, sempre nel registro acuto, probabilmente su sollecitazione di un solista come Grigorij Pjatigorskij, dedicatario del Concerto. Gianfrancesco Malipiero ha una scrittura concertante: il violoncello è una voce in dialogo costante con le altri parti. In Riccardo Malipiero il solismo è presente ma in una partitura complessa come un codice».

Anche quest’ultimo è però molto plastico e lirico.

«È vero: nonostante una tecnica vicina alla serialità mantiene un lirismo tutto italiano. Ecco perché ho voluto inserirlo nel disco. La vena nobile del canto all’italiana è il vero fil rouge di tutto il disco. Se a prima vista è un trio senza relazione, all’ascolto appare evidente la trasformazione della vena lirica nei decenni a cavallo della guerra».

Come ha costruito il suo percorso in questo repertorio?

«Sono partita da Rota per passare da Respighi e Casella e arrivare a Malipiero. È un’inversione cronologica: i due Concerti di Rota sono dei primi anni Settanta. Ma Rota, che ha uno stile personale e ben riconoscibile, era il più semplice dal punto vista linguistico. È stato un viaggio attraverso le anime di un secolo verso la complessità»

Che risposta ha avuto? «Il primo disco, nel 2011, fu un azzardo premiato dal successo oltre ogni previsione. Ma mi colpì come a fronte di un tot di vendite in Italia, all’estero, specialmente in Polonia e Germania, paesi con una cultura musicale molto sviluppata, i risultati erano esponenziali. Non è un caso che sia stata invitata a eseguire questi concerti prima all’estero che in Italia. Anche ora con Castelnuovo Tedesco le prime richieste mi arrivano dalla Germania. In Italia la prima obiezione è che questi autori non sono noti. C’è paura che questo repertorio non attiri il pubblico, ma è pigrizia intelletuale. Devo dire poi che è gratificante ricevere messaggi da violoncellisti di tutto il mondo che chiedono informazioni su questo repertorio. E ancora di più mi riempie di orgoglio la quantità di richieste che mi arrivano dagli studenti dei conservatori italiani. Ora i ragazzi non parlano più solo del Concerto di Dvorák da portare al diploma».

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