martedì 1 marzo 2022
L’esistenza del grande pittore si intreccia a quella del giovane Carlo davanti al dipinto di una maternità conservato nella baita di famiglia
Giovanni Segantini, "Savognino d'inverno"

Giovanni Segantini, "Savognino d'inverno" - WikiCommons

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L’incontro con le storie degli altri può cambiare la nostra storia, soprattutto quando siamo giovani e dunque disposti ad assorbire richiami e suggestioni. Ciò accade soprattutto agli animi più sensibili. È quanto succede a Carlo, coprotagonista (tra poco vedremo perché non semplicemente protagonista) dell’ultimo romanzo di Carmine Abate, Il cercatore di luce (Mondadori, pagine 346, euro 18,50). Lo incontriamo nelle prime pagine: è un adolescente la cui famiglia è composta da una madre insegnante di Lettere in una scuola media, da un padre doganiere che fa del proprio lavoro l’alibi per tornare a casa il meno possibile, da una sorella con la quale intercorre la tipica conflittualità. Ma anche i genitori non vanno d’accordo: tra loro sono sempre urla e litigi. C’è anche un’altra figura alla quale Carlo è particolarmente legato: Moma, la nonna di origini calabresi (e la lingua della sua terra fa spesso capolino nel suo eloquio), già maestra elementare, che un fascinoso ingegnere del Nord - il quale aveva lo stesso nome, Carlo - aveva conosciuto in Calabria portandola con sé in Trentino, dove è ambientato il romanzo. Perché, dunque, se questi sono i personaggi principali, abbiamo definito Carlo coprotagonista? Perché accanto alla storia della sua formazione ne scorre un’altra parallela, quella del pittore Giovanni Segantini. Nella baita di montagna adattata dal padre di Carlo, con una convinzione non condivisa dalla moglie, a casa per le vacanze estive c’è un misterioso quadro che raffigura una madre con un bambino. Carlo ne è affascinato e la nonna, che intuisce la sua curiosità, comincia a rievocare la storia di quel dipinto, firmato proprio da Segantini e da questi donato al nonno Carlo. Così l’altro protagonista del romanzo diventa Segantini, le cui vicende vengono raccontate da Moma al nipote, che le approfondisce per conto suo attingendo ad altre fonti. Nello sviluppare un rapporto di empatia con il pittore trentino, Carlo scopre se stesso e la propria vocazione. Alle pagine incentrate sulla sua maturazione, personale e sentimentale, si alternano quelle in cui la parabola biografica e artistica di Segantini viene ricostruita in maniera avvincente ma anche molto precisa (l’autore dichiara in una nota di essersi scrupolosamente documentato prima di accingersi a scrivere). Così seguiamo la vita avventurosa del pittore ('il cercatore di luce' del titolo del libro è lui, ma è anche per certi versi lo stesso Carlo) nei suoi spostamenti (da Arco, dove era nato nel 1858, a Milano e alla Brianza; da Venezia, tappa di un importante viaggio, alle montagne dell’Engadina, dove si ritira nel 1894 per morirvi cinque anni più tardi), nelle sue gioie (l’amore per Bice, la compagna di una vita e madre dei suoi figli), nelle sue difficoltà (orfano di entrambi i genitori aveva trascorso un’infanzia infelice in riformatorio). Una simile articolazione strutturale del romanzo - che allude al Trittico della Natura ('La Vita', 'La Natura', 'La Morte'), i tre spettacolari pannelli, solo parzialmente finiti, oggi conservati al 'Segantini Museum' di St. Moritz - avrebbe potuto facilmente ingenerare il rischio di una giustapposizione di parti diverse e non amalgamate, ma Carmine Abate è molto abile nell’intrecciare i piani narrativi. E poi c’è la pittura di Segantini, che pose la maternità, come nel quadro nella stanza di Carlo, quale soggetto centrale di gran parte della sua produzione: quasi una sublimazione del dolore per la prematura perdita della propria madre.

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