mercoledì 23 luglio 2014
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Che sarebbe diventato uno dei miti del Novecento si poteva forse già capire dal film di Goffredo Alessandrini del 1941, Caravaggio. Il pittore maledetto, con Amedeo Nazzari nei panni del pittore: l’interpretazione venne premiata con la Coppa del ministero della Cultura popolare alla mostra del cinema di Venezia in quello stesso anno. C’è da chiedersi come riuscisse il fascismo a conciliare quel «pittore maledetto» con il proprio ideale d’ordine monumentale... Non è che il cinema poi se ne sia occupato tantissimo: nel 1967 ci provò Gian Maria Volonté, in forma di sceneggiato televisivo; qualcosa di analogo, quarant’anni dopo, con il Caravaggio interpretato da Alessio Boni nel film dal titolo ameno L’ombra del genio. Nel mezzo il film surreale, urticante e ironico di Derek Jarman, che fa quasi la parodia dello stereotipo del «pittore maledetto» esasperando la tortuosità esistenziale di Caravaggio in un ménage a trois tra bisessualità, omosessualità, fatti di sangue e disperazione, anche questo secondo il mito che sposa perfettamente la biografia tormentata del pittore con un sentire contemporaneo che sembra provare nostalgia per il mondo secentesco “luci e ombre” di cui Caravaggio sarebbe l’emblema.  La verità è che l’apoteosi del mito non è ancora completa, perché Caravaggio ha la rarissima qualità dell’artista classico che riesce a parlare all’uomo di oggi forse più e meglio di quanto non riuscisse coi suoi contemporanei. Se il cinema rafforza la popolarità di un mito, nondimeno questo accade quando un personaggio diventa protagonista di un fumetto, come avviene ora con Uccidete Caravaggio pubblicato da Sergio Bonelli editore, sceneggiato da Giuseppe De Nardo e illustrato dai disegni di Giampiero Casertano. Tra intrighi di cardinali e sicari, cavalieri di Malta e soldati mercenari assoldati per fare la pelle al pittore in fuga dopo l’uccisione di Ranuccio Tommasoni nel 1606, il fumetto, condotto con una invenzione che rispetta abbastanza quello che sappiamo oggi di Caravaggio, si chiude con la morte per le febbri malariche sulla spiaggia di Porto Ercole dove in questi giorni c’è un gran daffare di sepolture e celebrazioni delle sue presunte spoglie mortali che la Fondazione costituitasi recentemente sul nome del pittore ha provveduto a inumare il 18 luglio, giorno della morte del Merisi a Porto Ercole nel 1610, inaugurando il Parco monumentale funerario a lui dedicato. Capite a che punto siamo, se il mito, ormai, si riduce a una faccenda per baracconi ludici e turistici.  Ben venga, dunque, un saggio informato come quello che il filosofo Giuseppe Fornari dedica al pittore col titolo ambizioso La verità di Caravaggio (Nomos edizioni, pp. 178, euro19,90). Fornari è un discepolo di René Girard, il grande studioso del mimetismo sacrificale e del capro espiatorio, interprete del rituale pagano della violenza e del sacro, sul quale il sacrificio di Cristo ha prodotto il rovesciamento definitivo ponendo fine alla logica del meccanismo vittimario. La cosa è da tenere a mente, perché la lettura che Fornari dà del “caso Caravaggio” lascia trasparire tra le righe il discorso girardiano, e vede in Caravaggio un “incompreso” da molti del suo tempo (la sua ribellione e- ra sintomo di questioni personali irrisolte, a cominciare dalla morte dei genitori quand’era ragazzino), ma soprattutto un “incompreso” per quanto riguarda le ragioni cristiane della sua pittura da parte di quella critica che nel Novecento ne ha nondimeno rilanciato la grandezza: da Longhi a Berenson, da Ferdinando Bologna a Maurizio Calvesi. Fornari s’impegna a fondo per mostrare come dietro ognuna di queste interpretazioni vi sia un pregiudizio o un sospetto sulla religiosità dell’artista. E tutto ruota attorno ai fraintendimenti critici del suo “realismo”, spesso ridotto alla mera immanenza, mentre secondo Fornari ha sempre una declinazione trascendente o per così dire divina.Parlando del Seppellimento di santa Lucia, uno dei capolavori siciliani di Caravaggio (che vi ha inserito, come talvolta ha fatto, anche il proprio autoritratto) Fornari scrive: «La Verità luminosa che viene sepolta al pari della martire di Caravaggio, e di cui Caravaggio dipinge sul proprio stesso volto la rivelazione, è la Verità dell’innocente sopraffatto, di chi subisce il male degli altri divenendo letteralmente innocente – in-nocens , incapace di nuocere – anche se dianzi innocente non era». La frase che conclude il libro offre una sorta di contrappunto necessario alla comprensione di questa idea, laddove Fornari scrive: «Caravaggio e Goya ci insegnano che nell’universo cristiano, come nella più grande arte cristiana, è l’esperienza certa del Male la prova più certa del Bene, la resurrezione indistruttibile della sua bellezza». L’insistenza con cui Fornari ritorna sulla cristianità di Caravaggio è certamente legittima (e a suo modo fondata sulla simbolicità della luce). Prima di lui anche Calvesi – che Fornari critica in alcuni eccessi di allegorismo simbolico – aveva ribaltato la visione di un Caravaggio eretico in quella di esponente di spicco dell’ideale artistico della Controriforma. Fornari usa spesso l’interpretazione di Bernard Berenson a contrario, cioè prende quelle che giudica il frutto di un idiosincratico amore-odio del grande critico americano verso Caravaggio, per mettere in evidenza come un’intuizione in negativo possa indicare la strada giusta da seguire (che è un po’ un rispecchiamento di quella stessa condizione ossimorica che vede impressa col fuoco sulla carne e sui quadri dell’artista). Così, dopo aver costatato che «l’impulsività che gli aveva rovinato la vita ha forse finito col perderlo», prende a prestito Berenson quando del pittore scrive che «fra mille doti che aveva, gli mancava quella del saper vivere», infine per commentare: «Ma chi non sa vivere può almeno imparare a morire, può aver cristianamente pensato Caravaggio». Non fa una grinza, salvo quel «cristianamente ». Perché dobbiamo affermare che sia necessario pensare cristianamente per accettare la morte? Gran parte della filosofia che precede il cristianesimo si è impegnata per questa accettazione, gli stoici per esempio. Naturalmente, se l’avverbio avesse seguito la parola morire (cristianamente) niente da osservare. La “verità di Caravaggio”, in fondo, è anche questa: che l’uomo viene prima del cristiano, anche nel cristianesimo. Come Fornari s’impegna per tutto il libro a dimostrare, la pittura di Caravaggio è un allineamento empatico fra il tema da rappresentare e la propria esperienza (spesso tragica). La prova è in quella che si pensa sia l’ultima sua opera: la tela del Davide e Golia alla Galleria Borghese. La testa del gigante è l’autoritratto, d’impressionante verità esistenziale, del pittore. La più potente immagine del capro espiatorio che si sentiva di essere, ma anche con la consapevolezza finale di aver fatto di tutto per esserlo. Sia per l’orgoglioso vanto sia per il narcisismo sprezzante con cui si atteggiava in pubblico, modi che si sposavano anche a negligenze nel vestiario e nell’igiene (sintomi della sua irrisolta questione personale); ma divenne vittima anche per l’odio e il disprezzo (spesso ingiusto e interessato) di chi ne invidiava la fama e le protezioni. Come si dice in questi casi, la prudenza non è mai troppa. E Caravaggio di prudenza ne ebbe sempre poca, o punto.
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