lunedì 15 dicembre 2014
COMMENTA E CONDIVIDI
Nella sua monumentale opera, Storia della guerra civile in Italia, Giorgio Pisanò delinea un affresco storico accurato del contesto in cui ebbero luogo le vicende dell’epilogo di Mussolini. La narrazione di Pisanò, a distanza di mezzo secolo dalla sua apparizione, conserva una sua sostanziale validità, salvo per un elemento, tuttavia molto importante. Il giornalista di estrema destra, sulla base delle informazioni in suo possesso, all’epoca della stesura della Storia della guerra civile in Italia, attribuisce la determinazione di giungere all’esecuzione sommaria del Duce alla sola componente comunista del fronte di Liberazione, che in buona sostanza sarebbe riuscita a imporre alle forze politiche moderate, grazie al sostegno dei partiti di sinistra (socialisti e azionisti), una tale scelta. In realtà, oggi noi sappiamo che quella decisione fu invece assunta in modo unitario da tutte le forze antifasciste. Nel dopoguerra, per esigenze di mercato politico connesse con il guastarsi del clima di collaborazione unitaria, i partiti moderati (la Dc e il Partito liberale, in primis) si ritrassero evitando di rivendicare la paternità di tale scelta. La Guerra Fredda determinò una frattura tra il Partito comunista e i socialisti, da una parte, e le forze politiche di centro, dall’altra, e tutto quanto, verità storiche comprese, venne sacrificato sull’altare di questa acuta contrapposizione. Perché affermiamo che la decisione di passare per le armi sommariamente il Duce fu assunta in modo unitario? Oggi lo possiamo sostenere sulla base di una testimonianza molto qualificata di cui dobbiamo tuttavia tacere, in via prudenziale, l’identità. Si tratta di un personaggio che, nel giugno del 1967, ebbe a raccogliere una confidenza dallo stesso generale Raffaele Cadorna, al tempo dei fatti comandante generale del Corpo volontari della libertà, dunque il supremo responsabile militare della Resistenza. Ecco la testimonianza della nostra fonte, che, lo ripetiamo, è degna della massima fede e di assoluta attendibilità: «Una sera (ricordo che era al tempo della Guerra dei Sei giorni), Cadorna mi invitò a cena a Pallanza. Al termine, alzatici da tavola, mi invitò a seguirlo nel suo studio. Io ero sulle spine, perché volevo chiedergli come fosse andata la questione della morte di Mussolini. C’erano le luci soffuse, l’ambiente era preparato alle confidenze e non sapevo come porgli la domanda. Lui lo intuì e ruppe il ghiaccio dicendomi: “Chiedimi pure tutto quello che vuoi”. E allora gli domandai: “Mi puoi spiegare come andò riguardo alla morte di Mussolini? Chi prese la decisione di ucciderlo?”. Lui mi rispose schiettamente: “Guarda, è molto semplice, a decidere fummo io e Longo, a nome del Cln”. Fu di una sincerità assoluta. Mi spiegò che aveva assunto quella decisione, in termini di funzione di responsabilità, in quanto era necessario evitare che Mussolini fosse processato. Perché processare il Duce avrebbe significato processare l’intero Paese».Ciò che, in particolar modo, bisognava evitare era che l’ex dittatore chiamasse in causa le responsabilità della monarchia, avviando un processo alla storia dell’Italia che avrebbe potuto ulteriormente dividere e dilaniare il Paese. Il lealismo monarchico di Cadorna giocò un ruolo determinante, nel calcolo delle valenze di opportunità rispetto alla scelta di procedere all’eliminazione del Duce dalla scena.Questa versione appare distante dall’ambigua rappresentazione dei fatti che lo stesso comandante del Cvl volle lasciare, in sede di memoria storica retrospettiva, autoraffigurandosi come l’uomo che aveva subìto in maniera passiva la decisione, anziché come colui che aveva contribuito, e in modo decisivo, a formarla. Nel suo libro La riscossa (Bietti, 1948; nuova edizione 1976), Cadorna così ricostruisce quel passaggio decisivo: «[La sera del 27 aprile] si presentano da me i due rappresentanti comunisti, Lampredi e Valerio (rag. Audisio), e mi comunicano di aver avuto mandato dal Clnai di recarsi sul posto col compito di giustiziare Mussolini. Il mio primo pensiero fu che si trattasse di un ordine del Comitato insurrezionale e di uno dei soliti colpi di mano dei comunisti, che tale Comitato avevano costituito ai loro fini, per cui sarebbe stato meglio esigere una comunicazione scritta. Dovetti però considerare che il Clnai, pur senza aver preso una deliberazione formale, aveva sempre dato come ovvia e sottintesa la necessità che i principali esponenti fascisti fossero giustiziati dietro semplice riconoscimento; d’altra parte punte corazzate americane avevano già attraversato Como e non vi era dubbio che, appena avessero avuto notizia della cattura, avrebbero reclamato la consegna del criminale di guerra numero 2».La problematicità della formulazione ha indotto molta parte della storiografia a suggerire che Cadorna avesse agito con doppiezza. Cioè: mentre, da una parte, il generale avrebbe fatto buon viso a cattivo gioco, fingendo di aderire alla direttiva volta all’esecuzione sommaria del Duce, dall’altra avrebbe agito per impedire che essa trovasse attuazione pratica. Ne deriva che, dopo essersi limitato a una presa d’atto formale del deliberato comunicatogli da Lampredi e Audisio, Cadorna avesse tentato di porre in essere una manovra ostativa, affidata ai suoi terminali lariani, ossia al suo rappresentante personale a Como, il barone Giovanni Sardagna. Si tratta, cioè, della famosa opzione del trasbordo del prigioniero, via lago, da Moltrasio a Blevio, e la sua custodia in un luogo defilato, in attesa che fosse messo a disposizione degli Alleati. Una contromisura che, come si vede, mirava a sottrarre il Duce ai suoi carnefici inviati dal Partito comunista, per favorirne la consegna agli angloamericani.Cadorna non soltanto non ebbe mai alcuna seria intenzione di sabotare il piano di passare per le armi sommariamente il Duce, ma nemmeno agì per favorire la consegna del prigioniero agli angloamericani. La tarda notte di quel 27 aprile, il comandante del Cvl non ricevette alcuna direttiva da Lampredi e Audisio, alla quale avrebbe aderito dopo attenta ponderazione. Le cose andarono in modo molto diverso: fu lui stesso a formare quella decisione, non con luogotenenti o emissari di Longo, quali erano Lampredi e Audisio, ma con lo stesso Luigi Longo. Il seguito del ragionamento di Cadorna – sempre contenuto nelle sue memorie – aiuta a qualificare meglio il senso della confessione intima resa al suo ospite, quella sera a Pallanza: «Nella necessità di provvedere immediatamente e nella impossibilità di prendere diretto contatto con il Clnai che non sedeva in permanenza, mi regolai come in ogni atto della mia vita di soldato, domandandomi unicamente quale sarebbe stata l’eventualità più dannosa per l’Italia a prescindere da ogni mia personale preoccupazione. Avrebbe forse giovato all’Italia la cattura di Mussolini da parte degli Alleati e il conseguente spettacolare processo che sarebbe diventato fatalmente il processo alla politica italiana di oltre un ventennio, nel momento in cui era necessario si facesse il silenzio su fatti e circostanze nei quali sarebbe stato estremamente difficile separare le responsabilità di un popolo da quelle di un capo? Chi poteva presumere che, dopo tanto discredito, la sopravvivenza di Mussolini potesse ancora essere utile al Paese? In nessun caso poi avrei volontariamente proceduto a effettuare la consegna di Mussolini in mano alleata perché egli fosse giudicato e giustiziato dallo straniero».Così Cadorna qualifica in sintesi la sostanza del suo orientamento d’allora: «Davanti a un ordine la cui esecuzione non poteva comunque sfuggire alle mie competenze e neppure al mio apprezzamento, quale atto imposto da una ineluttabilità di forze e di eventi di cui è possibile farsi un’idea solo riportandosi a quei giorni e mettendosi al posto di chi si trovò in mezzo a quella situazione di estrema incertezza e di esasperata eccitazione, io agii nei limiti di una precisa responsabilità a cui non intesi né intendo sottrarmi».
© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI

ARGOMENTI: