giovedì 2 giugno 2022
Dopo dodici anni Boston torna a giocare una finale Nba a caccia del record dei 18 anelli. Una franchigia che da Cousy a Larry Bird ha scritto la storia di questo sport
La stella dei Boston Celtics, Jayson Tatum, 24 anni, in azione contro i Miami Heat

La stella dei Boston Celtics, Jayson Tatum, 24 anni, in azione contro i Miami Heat - Ansa

COMMENTA E CONDIVIDI

«Per me, il vincente è colui che riconosce il talento datogli da Dio, si impegna fino all’estremo per migliorare le proprie capacità, e usa queste capacità per realizzare i suoi obiettivi». Parola del grande Larry Joe Bird, campione senza tempo del basket Usa, trascinatore dei formidabili Boston Celtics degli anni Ottanta. Soprannominato “The Legend”, il mitico numero “33” dalla chioma bionda, riconosciuto come il giocatore bianco più forte della storia, diede vita a uno dei più famosi duelli sportivi di sempre con Magic Johnson dei Los Angeles Lakers, l’altra grande dinastia Nba. Una rivalità che uscì fuori dai confini americani e sbarcò anche nella Tv italiana divenendo fenomeno di costume con gadget e divise della magica “Enbiei”. Altri tempi, ma è un tuffo nella memoria suscitato dai sorprendenti Celtics di oggi che dopo ben dodici anni questa notte tornano in una finale Nba, sfidando i Golden State Warriors. Un’attesa davvero troppo lunga per una franchigia che insieme con i Lakers detiene il maggior numero di titoli in bacheca, 17. E adesso vuole l’anello dei più vincenti di sempre, per allungare l’epopea biancoverde nata nel 1946. In quell’anno furono scelti nome e colori delle maglie, un chiaro omaggio alla forte immigrazione irlandese di Boston, così come lo sono i simboli, dal trifoglio allo gnomo, il leprecauno.

Se per i Warriors si tratta della sesta finale nelle ultime otto stagioni, sono i Celtics la grande rivelazione dell’anno. Basta guardare alla cavalcata incredibile con cui sono arrivati all’ultimo atto. Hanno eliminato prima i favoriti di inizio anno, i Brooklyn Nets di Kevin Durant e Kyrie Irving. Poi i campioni in carica, i Milwaukee Bucks di Giannis Antetokounmpo. E infine hanno battuto in finale di Conference, i Miami Heat dell’inossidabile Jimmy Butler, che avevano chiuso al primo posto la loro stagione regolare a Est. Un successo ottenuto ancora in gara 7 al termine di una battaglia fino all’ultimo secondo. Giocata in trasferta peraltro perché Boston aveva perso l’occasione di chiudere in casa la serie. Tutto merito di un collettivo ben orchestrato, che ha espresso il miglior gioco corale, impreziosito dal talento di Jayson Tatum. L’ala 24enne di St. Louis ha vinto anche il nuovo premio istituito dalla Nba per il miglior giocatore delle finali di Conference. Quello a Est è dedicato a Larry Bird e si può capire quanto sia speciale vincerlo per un giocatore dei Celtics.

Tatum però aveva una motivazione superiore per conquistare la finale e l’ha svelato a fine gara: omaggiare l’indimenticabile Kobe Bryant. Pur non avendoci mai giocato contro era diventato il suo mentore, anche per una serie di allenamenti insieme. Un legame molto stretto al punto da scendere in campo con una fascetta al braccio di colore viola, con un 24 giallo. La stessa che il Mamba indossava con i suoi Lakers. E prima della partita, il giocatore dei Celtics aveva anche scritto un messaggio all’ormai ex numero di Bryant: «I got you today» («Ti porto con me oggi»). E a fine gara è stato vinto dall’emozione: «Kobe era il mio idolo, la mia fonte di ispira- zione, il mio giocatore preferito. Qualche ora prima della partita, anziché dormire, per caricarmi ho guardato alcune imprese della sua carriera». E dire che fu proprio Bryant dodici anni fa a negare l’anello ai biancoverdi nell’ultima finale disputata da Boston. Come Kobe (cattolico), anche Jayson è molto credente (cristiano evangelico). Non ha mai nascosto di aver coltivato questo dono sin da bambino grazie alla nonna. Come dimostrano anche alcuni tatuaggi. Uno ispirato al libro biblico dei Proverbi dice: «Confida nel Signore con tutto il cuore». La fede, ha spiegato Tatum, lo aiuta a tenere i piedi per terra. «Mia nonna mi diceva sempre di ricordare sempre da dove vengo. A chi molto è dato, molto è richiesto. Mi è sempre rimasto impresso. Mi ha detto di non essere mai arrogante e di essere sempre umile... I talenti che ho e tutto quello che faccio lo faccio per Gesù».

Nella sua città natale, St.Louis nel Missouri, ha creato una fondazione per bambini e giovani per aiutarli a realizzare i propri sogni. Una missione ispirata al versetto delle Scritture che ama di più, quello di san Paolo: «Tutto posso in colui che mi dà la forza». Ed è ancora in virtù di questa forza interiore che Tatum si appresterà a vivere il gradino fin qui più importante della sua carriera. Per Boston è una finale tanto inattesa quanto preziosa. Dopo l’era Bird i Celtics sono entrati nell’albo d’oro solo una volta nel 2008 grazie ai Big 3, la triade Paul Pierce, Kevin Garnett e Ray Allen. In palio c’è l’anello del record ma anche l’ingresso nell’olimpo degli immortali che hanno vestito questa maglia. Dal vecchio Boston Garden (oggi TD Garden) sono passati non solo giocatori leggendari ma anche grandi uomini. E c’è davvero l’imbarazzo della scelta risalendo ai pionieri di questa dinastia. Che dire per esempio di Bill Russell? Undici anelli in tredici stagioni, l’inventore della stoppata e dell’aforisma che più di tutti racchiude l’essenza di questo gioco: «Il basket è l’unico sport che tende al cielo. Per questo è una rivoluzione per chi è abituato a guardare sempre a terra».

Ma non si può dimenticare nemmeno il suo leggendario compagno di squadra, Bob Cousy, il primo grande mago dei parquet. Il patriarca dei playmaker, uno che incantò tutti con assist da capogiro, ideando passaggi e palleggi dietro la schiena. Il primo grande “piccolo” (185 centimetri) in un mondo di lunghi. E non a caso si tramanda quella frase che dice: «Nel basket ci sono solo due certezze. La prima è che il dottor Naismith ha inventato il gioco. La seconda è che Bob Cousy l’ha reso una forma di arte». Ma lui oggi, 93enne, minimizza. E quando tre anni fa ricevette la Medal of Freedom, la più alta onorificenza civile negli Stati Uniti, spiegò che deve tutto all’educazione cattolica ricevuta all’Holy Cross, il collegio gesuita di Worcester nel Massachusetts. Lì ha scoperto la sua missione: «I miei maestri gesuiti dicevano: “Massimizza le capacità che Dio ti ha dato e aiuta i meno fortunati”. E al meglio delle mie capacità, questo è ciò che ho cercato di fare». Da stanotte (ore 3 Sky) Tatum e compagni cercheranno allora di riportare indietro le lancette del tempo. Pensando a quei campioni in canotta biancoverde che guardando in alto hanno realizzato un sogno, facendo felici per sempre generazioni di appassionati.

© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI

ARGOMENTI: