mercoledì 6 luglio 2016
Le nuove frontiere dell’ingegnere biomedico
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«L’Italia ha scelto per il momento di non investire nella ricerca di base, di non valorizzare la cultura scientifica e di escludersi quindi da tutta una serie di strategie a lungo termine per il benessere sociale e tecnologico che sono invece molto seguite in altri paesi ed è per questo che c’è una fuga in massa oltralpe di ricercatori e scienziati». Michele Giugliano è un bioingegnere e neuro scienziato di 42 anni, professore all’università di Anversa e visiting professor presso l’Università di Sheffield; i suoi studi e ricerche oltre ad introdurre studenti al mondo dell’ingegneria biomedica, cercano ovviamente di trovare risposte e soluzioni per quelle patologie o malattie cerebrali o che interessano il sistema nervoso. «Citando wikipedia l’ingegneria biomedica è quel ramo ingegneristico che utilizza le metodologie e le tecnologie proprie dell’ingegneria al fine di comprendere - dichiara Michele Giugliano - formalizzare e risolvere problemi d’interesse medico-biologico. Senza dubbio la bioingegneria rappresenta uno strumento a disposizione delle tecniche della medicina del futuro, intesa come insieme delle diverse modalità per alleviare le sofferenze dei malati. Nel nostro ambito il futuro è rappresentato proprio da questa branca dell’ingegneria, in quanto il nostro corpo è una macchina e una sua comprensione meccanicistica è la sola che renda possibile il trattamento delle malattie con un approccio non più “correlativo” (del tipo vediamo che succede) ma “causativo” (cioè so come funziona e per questa ragione uso questa strategia); un po’ come per riparare un motore». Unire la fantascienza alla scienza non è più un’utopia ma da diversi anni un’ispirazione per una base solida di studi: il corpo umano è sempre più analizzato come macchina e come tale i ricercatori con basi ingegneristiche diventano necessari per supportare la scienza medica. L’importanza dello studio del cervello si sta rivelando fondamentale per scoprire le cause di moltissime malattie come la Sla e la sindrome di Parkinson «già nel IV secolo a.C. Ippocrate affermava che il cervello è l’organo sede dell’intelligenza ed è quello che ci rende uomini. Le malattie neurodegenerative e psichiatriche – racconta Michele Giugliano – sono fra le più devastanti perché ci tolgono o compromettono quella caratteristica di umanità. La psichiatria e la neurologia già da qualche tempo si orientano a un futuro in cui sostanze chimiche e trattamenti siano prescritti secondo dei principi precisi, acquisiti dallo studio del cervello ed è grazie allo studio di quest’ultimo che siamo riusciti a sopprimere alcuni sintomi (il tremore) per mezzo della stimolazione elettrica profonda». In questi decenni la tecnologia e la medicina hanno fatto dei passi da gigante soprattutto per quanto riguarda i pacemaker cerebrali, sempre più all’avanguardia e vicini alla risoluzione di patologie che fino a dieci anni fa erano considerate non curabili: «esiste una cosa che accomuna le ricerche di base sul funzionamento del cervello e le applicazioni odierne dei pacemaker cerebrali: si tratta del modo con cui i segnali elettrici delle cellule nel cervello vengono “letti” o misurati. Questo avviene oggigiorno con varie metodiche, ma alla fine le più importanti storicamente sono quelle elettromagnetiche. Un po’ come si fa nel caso delle onde radio, così per il cervello si usano dei metalli (i.e. elettrodi) a fare da antenna ricevente o trasmittente ed è proprio questo che io e la mia squadra stiamo cercando di perfezionare. Lo sviluppo delle mie ricerche è allineato proprio all’interfaccia fra elettrodo e cellula, e come avanzare in questa connessione “innaturale” cercando di renderla più (bio)compatibile possibile e più neuro-morfa, una sorta di connubio fra naturale e artificiale». I pacemaker per i parkinsoniani è già realtà commerciale da più di dieci anni ed è notizia di qualche settimana fa di un dispositivo che traduce i pensieri in movimenti per un paraplegico; la tecnica ovviamente si è evoluta al punto tale da riuscire a impiantare questi elettrodi sempre più in profondità e con dei risultati eccezionali «una cosa che mi ha sempre colpito è che gli elettrodi impiegati in questa terapia, impiantati permanentemente dentro il cranio dei pazienti in un delicato intervento neurochirurgico, sono molto grandi, parliamo di una punta di una penna biro, ma ancora estremamente vasti rispetto alle strutture cerebrali con cui dovrebbero “dia- logare”. Impiantarli chirurgicamente – spiega Michele Giugliano – significa da un lato introdurre un oggetto enorme rispetto alle cellule nervose, danneggiando durante l’inserimento anche parti del cervello sane; dall’altro significa parlare ad un gruppo enorme di cellule con un megafono, anziché una per una con un messaggio personalizzato.  Nei miei studi ho scoperto un materiale nano-strutturato basato sul carbonio, capace potenzialmente di migliorare l’efficienza degli elettrodi odierni e ridurne un giorno drasticamente le dimensioni fino al di sotto delle dimensioni di una cellula nervosa. Questo minimizzerà il trauma d’inserimento e migliorerà la selettività delle comunicazioni». L’impatto di questi studi, finanziati dai contribuenti europei, non sarà immediato ma come tutte le grandi invenzioni a lungo termine, probabilmente le scoperte di Giugliano daranno frutti nei prossimi decenni e saranno parte della ricerca del futuro dove i “chip” cerebrali, non avranno solo elettronica al proprio interno, ma saranno ibridi con una parte naturale e una artificiale.
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