domenica 19 novembre 2017
Un saggio mette in luce il rapporto di papa Pacelli con la medicina del suo tempo, sviluppando per la prima volta il magistero su temi quali i trapianti e la proporzionalità delle cure
Papa Pio XII nel suo 80° compleanno riceve gli auguri da una bambina

Papa Pio XII nel suo 80° compleanno riceve gli auguri da una bambina

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Teologo, canonista e diplomatico, Pio XII (Papa dal 1939 al 1958) è stato, forse sorprendentemente, un antesignano della bioetica in ambito cattolico, ben prima che la bioetica propriamente detta si affermasse a partire dagli anni Settanta del secolo scorso. Eppure, allargando la sua riflessione oltre gli studi accademici su cui si era concentrato nella gioventù e nella maturità, Eugenio Pacelli divenne un profondo conoscitore della medicina contemporanea, con cui dialogò a fondo, ricevendo durante tutto il suo pontificato delegazioni di clinici e partecipanti a congressi delle professioni sanitarie, cui rivolse un centinaio di discorsi. In molti di essi, è noto, sviluppò per la prima volta il magistero su temi quali i trapianti, la proporzionalità delle cure e la riduzione dei dolori del parto. Gli studiosi sanno quanto la successiva elaborazione dottrinale della Chiesa si sia richiamata ai pronunciamenti del Pastor angelicus; non tutti sono però al corrente di quanto vasta e minuziosa al tempo stesso sia stata la disamina e la valutazione di aspetti medici e scientifici da parte di quel Papa. Soccorre nell’illustrare dettagliatamente questo rilevante aspetto del lungo regno pacelliano un’utile ricognizione condotta da Stefano Mentil, bioeticista dell’Istituto Jacques Maritain ( La riflessione bioetica di Pio XII; Meudon, pagine 268, euro 20,00). Il Pontefice della Humani generis (1950), l’enciclica in cui aprì all’evoluzionismo come teoria scientifica, contrariamente a superficiali pregiudizi postumi che ne hanno oscurato la figura, ebbe attenzione e simpatia costanti per la scienza di cui riconosceva l’importanza e rispettava l’autonomia metodologica, orientandosi in particolare verso quelle applicazioni delle nuove conoscenze che maggiormente potevano giovare all’essere umano.

Da questa considerazione positiva non fu mai disgiunta, tuttavia, la preoccupazione etica legata al rispetto della legge naturale e della legge divina. Come sottolinea anche il filosofo Antonio Da Re nella prefazione al volume, la peculiarità della riflessione pacelliana è data dal fatto che essa partiva da una conoscenza fattuale precisa e approfondita per poi muovere verso l’argomentazione morale articolata che si riassume in tesi conclusive sulla liceità o inammissibilità, opportunità o doverosità, di specifiche pratiche. Il tutto con riferimenti alla Rivelazione, al testo biblico e alla tradizione cattolica, senza però che essi siano assunti come punti di partenza dai quali dedurre direttamente conclusioni normative. Si vedano allora alcuni dei pronunciamenti più innovativi per l’epoca o più incisivi quanto a influenza sugli sviluppi successivi nel contesto cattolico. Certamente nuovo era per un successore di Pietro affrontare argomenti di biologia e medicina, sebbene si avviasse in quegli anni l’impetuoso progresso delle possibilità terapeutiche, da una parte, e si facessero i conti, dal-l’altra, con la terribile eredità del nazismo, che aveva portato anche nella ricerca medica il disprezzo totale per qualunque dignità della persona attraverso aberranti esperimenti sull’uomo. Pio XII non mancò mai di sottolineare quanto il paziente dovesse essere informato e come il medico fosse tenuto a ottenere il consenso per ogni trattamento, benché ciò non configurasse l’idea di autonomia intesa nel senso laico attualmente diffuso.

Nell’ambito della vita nascente e della sessualità (di cui aveva una visione di antica diffidenza), se condannava come peccato «contro il senso stesso della vita coniugale» ogni tentativo di sottrarsi al dovere della procreazione, compreso il ricorso sistematico ai cosiddetti metodi naturali di controllo delle nascite, il Papa non escludeva la liceità per le coppie dell’astenersi dalla generazione al fine di una 'eugenetica negativa', tesa a evitare «tutto ciò che potrebbe provocare alla loro discendenza danni permanenti e il trascinarsi in una serie interminabile di miserie». Di qui la necessità di informazione genetica diffusa e recepita. Non si deve però equivocare il senso della raccomandazione: la fecondazione artificiale in ogni sua forma è giudicata gravemente immorale e l’aborto un’«uccisione diretta», tranne nei casi di aborto terapeutico indiretto. In questo caso agisce sulla valutazione morale il principio del duplice effetto. Nelle parole del Pontefice nel Discorso alle associazioni delle famiglie numerose del 1951, «se la salvezza della vita della futura madre richiedesse urgentemente un atto chirurgico, o altra applicazione terapeutica, che avrebbe come conseguenza accessoria, in nessun modo voluta né intesa, ma inevitabile, la morte del feto, tale atto non potrebbe più dirsi un diretto attentato alla vita dell’innocente».

La dottrina del doppio effetto, di ascendenza tomista, ha particolare rilievo anche per giustificare la sedazione antalgica che porti all’abbreviazione dell’esistenza di un malato inguaribile. Il Papa, rispondendo agli anestesisti, sottolineava che se l’effetto non è ricercato in sé ma prodotto non desiderato dell’attenuazione del dolore del paziente non si ha eutanasia diretta, perché, come scrive Mentil, «l’accelerazione della morte, pur prevista quale conseguenza dell’atto terapeutico, risulta comunque proporzionata al beneficio prodotto (il sollievo della sofferenza)». In ambito di fine vita, nel 1957 Pio XII non giudicava un obbligo né per il paziente né per i medici il ricorso alla rianimazione e alla terapia intensiva, allora ai loro albori e considerati 'mezzi straordinari', a differenza di quanto accade oggi. Ne conseguiva la liceità di arrestare la respirazione artificiale. L’accertamento della morte fisica veniva poi demandato alla medicina, mentre il Pontefice si espresse nettamente a favore della donazione e dei trapianti di organi, aprendo anche alla compensazione economica a favore del donatore e della sua famiglia.

Se la sensibilità al contrasto della sofferenza del corpo, non più vista solo come mezzo salvifico e di espiazione, è stata una novità introdotta dal Pastor angelicus, più ferma in una mentalità che era già in via di superamento fu la sua posizione circa la pena di morte, ammessa senza remore per delitti gravi, nel quadro della concezione secondo cui è il reo stesso a compiere suicidio morale e a porsi al di fuori dell’ordine naturale, che farebbe invece della protezione della vita un valore intangibile. Secondo l’autore e lo stesso Da Re, l’approccio di Pacelli alla bioetica, pur ante litteram, rimane a oggi un unicum, perché né troppo spirituale né troppo moralistico e disgiunto dal confronto con la scienza. Merito quindi a un’opera che fa sintesi di un magistero amplissimo (che va dalla psicoanalisi alla chirurgia estetica, dall’ostetricia allo sport), ma che forse si sarebbe giovata di un migliore raccordo con la figura e il pensiero complessivo di Pio XII e di una pur sintetica ricognizione di come furono recepite le prese di posizione del Papa e di ciò che nell’ambiente scientifico e filosofico già in quegli anni si agitava. Nemmeno l’ammaestramento di un Pontefice si svolge nel vuoto, e la contestualizzazione storica certamente aiuta a capire come il dibattito bioetico si sia dispiegato dai suoi esordii fino al complesso panorama contemporaneo.

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