venerdì 17 settembre 2021
Le risposte alle lettere della rubrica tenuta sul “Guerin Sportivo” fino alla morte (avvenuta nel ’71) dallo scrittore grossetano sono perle di letteratura sportiva che tornano in libreria
Luciano Bianciardi (1922-1971) seduto a un parco di Milano

Luciano Bianciardi (1922-1971) seduto a un parco di Milano

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Sarò sempre grato a quella penna di gran “classe” (accezione che poi approfondiremo) di Pino Corrias per avermi fatto scoprire e poi innamorare dei libri di Luciano Bianciardi attraverso le pagine di Vita agra di un anarchico( Baldini & Castoldi, 1993). Da quel libro in poi, ho letto tutto ciò che la grande mente di Maremma – Bianciardi nacque a Grosseto nel 1922 – era riuscito a scrivere in 49 anni di vita assai agra e tormentata (è morto a Milano il 14 novembre 1971). Per una volta, sfrutto un assist giocabile di Vittorio Feltri in merito a un suo scritto sul presunto “irregolare” delle patrie lettere, Giuseppe Berto. Così non definirò più Bianciardi il “più irregolare” tra gli scrittori del nostro ’900, in quanto «i grandi artisti – scrive Feltri – non seguono le regole, le dettano». E Luciano Bianciardi è stato un grande artista della parola, lasciandoci una perla di romanzo come La vita agra (consigliato a tutti i liceali), insegnandoci da “storico militante” del Risorgimento con La battaglia soda (idem come sopra) e scavando in profondità con il Lavoro culturale nelle viscere dell’Italia del suo tempo. Fino ad illuminarci, da saggista e scrittore di giornali e settimanali, con la torcia dei suoi cari e sfortunati minatori di Ribolla (43 morti nella strage del 4 maggio 1954), alla stregua di un altro classe 1922, Pier Paolo Pasolini. E come Pasolini, Bianciardi è stato anche un “Poeta del gol”, distinguendosi da attento osservatore della nostra Repubblica fondata, ieri come oggi, sul pallone. Nel derby dialettico del “calciolinguaggio” con Pasolini, Bianciardi scelse di giocare sul campo della provocazione, sulla fascia della naturale predisposizione talentuosa all’antiretorica. Così, si guadagnò la stima illimitata e la convocazione di Gianni Brera, allora direttore del “Guerin Sportivo” nella stagione che andava dal 28 settembre del 1970 al 15 novembre del ’71 (per la cronaca, la stagione dell’11° scudetto dell’Inter). Bianciardi dettava le regole del gioco con una rubrica settimanale di botta e risposta alle lettere dei lettori. L’ultima missiva a cui rispose venne pubblicata il giorno dopo la sua morte, di cui Brera scrisse: «Per un morbo sicuramente insorto da una sua prostrazione sentimentale». E quegli scritti pieni dello spirito soavemente logico, quanto velenoso – “bianciardiano” – erano già stati raccolti da ExCogita, la casa editrice della figlia dello scrittore, Luciana Bianciardi, sotto il titolo corrosivo Il fuorigioco mi sta antipatico. Titolo di quella storica rubrica che ha stregato persino il tecnico – in questo caso assai irregolare – l’argentino Marcelo Bielsa, alias “El Loco” (“Il pazzo”). L’attuale mister del Leeds, nel periodo in cui allenava in Francia – il Lille, nel 2017 – aveva ottenuto dal monumentale quotidiano sportivo “L’Équipe” una rubrica inequivocabilmente bianciardiana fin dalla sua intitolazione: Il catenaccio mi sta antipatico. E come Bianciardi, anche Bielsa aveva riproposto la formula delle 10 domande dei lettori (anomimi o celeberrimi, comprese donne “calciofile” del calibro di Sonia Gandhi – lettera spedita da Delhi – o l’attrice Fanny Ardant) per altrettante risposte da recapitare al mittente di turno. Uno scrigno di filosofia di cuoio quella dell’allenatore di Rosario che Marco Ciriello ha raccolto nell’omonimo Il catenaccio mi sta antipatico (Magic Press Edizioni, 2017). Un omaggio a quello scialo di talento e genialità che è Marcelo Bielsa del quale Ciriello sottolinea: «Dopo quelle di Carmelo Bene, le sue conferenze stampa sono la massima espressione teatrale che conosca».

Il milanista vanbastiano e bastian contrario Carmelo Bene era uno dei più fedeli lettori della rubrica di Bianciardi, al quale chiese in via epistolare: «Se Monzon li leggesse, gli piacerebbero i romanzi di Carlo Cassola?». Bianciardi ribattè caustico all’istrionico teatrante: «No di certo, Monzon salirebbe in bicicletta e correrebbe sul filo dei quarantacinque orari per arrivare presto a Donoratico (Livorno) e lì farebbe molta paura al grande maremmano; anche se poi non avrebbe l’ardire di sfiorarlo con un sol dito... Pace e Bene». Risposta da mattatore, quanto Vittorio Gassman che ritroviamo tra le lettere degli uomini illustri indirizzate a Bianciardi e ripubblicate ora nella raccolta Potevo fare il trequartista. Nella lettera il coscritto Gassman («come me Vittorio, lei è del 1922») gli chiedeva lumi in merito alla categoria parakantiana dei «campioni tristi ». E dopo aver passato in rassegna mezzo universo olimpico, Bianciardi eleggeva come «il vero grande triste », il “Campionissimo”, «Fausto Coppi: è forse stato il primo grande atleta a condividere la sorte (triste) dell’uomo contemporaneo. Badi bene Gassman, non soltanto del campione. Dell’uomo. E la pagò cara». Di quella tristezza coppiana, frutto della passione anarchica e della temerarietà dei sentimenti, Bianciardi portò le cicatrici impresse nell’anima. «Luciano è morto di sensi di colpa, prima di morire, ucciso dall’alcol e dai barbiturici», ha confessato Maria Jatosti. La poetessa, «la mia contessa polacca», l’ultima compagna di vita che gli ha dato Marcello (figlio che porta il cognome della madre) e che sostituì quella moglie che Bianciardi, con i suoi demoni, aveva lasciato a Grosseto, assieme ad altri due figli, Ettore e Luciana. Ma questa è, un’altra, “lunga storia d’amore”, come canta il suo amico Gino Paoli, che chiede all’«Egregio Cavalier (antiquo), alcuni quesiti al suo parere illuminante, senza bolletta Enel per fortuna», in merito proprio «all’abolizione del fuorigioco». La replica: «Carissimo Gino: il fuorigioco mi sta antipatico, come tutte le regole, che limitano la libertà di movimento e di parcheggio. Vorrei che fosse abolito, anche per rendere meno monotono il gioco e gli schemi che gli allenatori definiscono “tattici”». Questa abolizione rimane un’utopia, come molte delle idee, spesso anche profetiche, che Bianciardi riuscì ad esprimere, anche negli spazi allora ristretti della stampa sportiva, che come Brera, aveva promosso al rango di massima serie. «Non esiste una stampa sportiva e quindi di serie B. Esiste il giornalismo e basta. La carta stampata quotidiana che si occupi di crisi sul Canale di Suez o di Milan-Cagliari non fa differenza». Lanci da trequartista puro che avrebbe meritato la maglia n. “10” della Fiorentina. La squadra che amava da grossetano che tornava a sentirsi toscano e di fede viola «solo quando gioco fuori casa, per esempio fra i longobardi di Milano», spiegava nella lettera di risposta all’attore Gianrico Tedeschi che lo solleticava sulla parola «tifo».

Sono dribbling filosofici quelli di Bianciardi, dotato di quella «classe» che riconosceva a Gassman come a Mazzola, e di uno «scatto » artistico potente quanto quello che rintracciava in Gigi Riva e De Chirico. Epigoni amati e tratteggiati con l’ironia di chi, oltre alla Nazionale del fiorentino d’adozione Ferruccio Valcareggi, se ne era fatta una tutta sua, e di cui si sentiva il ct in pectore. La Nazionale degli scrittori a cui si veniva ammessi dopo previa votazione breriana. Pertanto il massimo il «dieci» pieno per Bianciardi spettava solo a Italo Calvino. «Nove» e ricambio l’assist feltresco: lo diede agli amati Giuseppe Berto, ma anche a Vasco Pratolini e Carlo Cassola, i quali sopravanzano di un punto, Mario Soldati, Dino Buzzati e Alberto Moravia. Bocciatura per l’inviso Alberto Bevilacqua per cui Bianciardi nutriva la stessa antipatia che gli suscitava il pugile Nino Benvenuti. E se il suo «Direttore» Giuànn Brera, del quale ammirava, forse senza troppa convinzione, il romanzo Il corpo della ragassa, era stato accostato sarcasticamente da Umberto Eco al «Gadda spiegato al popolo» degli stadi, Bianciardi invece ambiva pubblicamente ad emulare il “sommo lombardo” del Carlo Emilio, autore che aveva letto come pochi altri. Anche se poi, sempre sulle colonne della sua rubrica ammetteva candido: «Se non fossi Bianciardi vorrei essere Bertrand Russell, il cervello più lucido del nostro secolo».

Volava alto il potenziale trequartista, che, tra un romanzo, una traduzione, un saggio e un elzeviro di denuncia contro quel boom economico che si sarebbe rivelato un boomerang con danni permanenti, poi riplanava su un terreno di gioco, come quello del suo «vero derby»: Piombino-Grosseto, del 1953. Una sfida da Strapaese in cui però lo scrittore già intravide tutti i germi futuri della dominante follia da ultimo stadio che, cinquant’anni fa, aveva già messo in fuorigioco: «Ci furono allora anche alcune revolverate fra le opposte e maremmane fazioni. E sui deprecati eccessi dei tifosi di oggigiorno torneremo un’altra volta...». Allora alla prossima, caro Bianciardi.

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