sabato 30 settembre 2017
Alla vigilia del campionato parla uno dei più grandi coach: «Milano favorita, ma ci sono pochi italiani di valore. Lavorare sui giovani»
Valerio Bianchini, oggi 74 anni, con Larry Wright (Virtus Roma) negli anni Ottanta

Valerio Bianchini, oggi 74 anni, con Larry Wright (Virtus Roma) negli anni Ottanta

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«Per capire la grandezza del basket, dico sempre ai ragazzi nelle scuole, guardate la vostra mano. Le cinque dita sono come i cinque giocatori in campo. Ogni dito è diverso dall’altro perché se fossero tutti uguali non riuscireste a fare niente. Pensate alla differenza tra pollice e mignolo: sembrano due famiglie diverse ma il pollice è contrapposto perché consente di afferrare le cose. E dall’uomo primitivo che levigava un sasso per farne una freccia, si arriva a Michelangelo che dipinge la Cappella Sistina. Ma oltre alla forza e la necessità di essere diversi per completarsi, c’è di più. Singolarmente le vostre dita sono fragili, ma se si chiudono insieme possono avere la potenza di un pugno: questo è il segreto della squadra, mettere insieme i talenti di ognuno e con uno spirito comune andare a vincere la partita». Storia, leggenda e arte della pallacanestro: se volete sapere tutto di questo sport non potete fare a meno di rivolgervi a un signore, oggi 74enne, che è stato un protagonista assoluto del nostro basket negli ultimi cinquant’anni. Stareste ore ed ore ad ascoltarlo perché Valerio Bianchini, prima di essere un “filosofo” della palla a spicchi, è un grande maestro di sport. Anche oggi che non siede più in panchina. È stato il primo allenatore italiano a vincere tre scudetti con tre squadre diverse (Cantù, Roma e Pesaro). Oltre a 1 Coppa delle Coppe, 2 Coppe dei Campioni, 1 Coppa Intercontinentale. Mai banale e sempre pungente, ha racchiuso adesso molte sue perle nel libro-intervista con Paolo Viberti: Bianchini. Le mie bombe (Bradipolibri, pagine 344, euro 18). «Non i tiri da 3 punti, ma le vere “bombe” le ho schivate. Mio padre era in guerra in Albania nel 1943. Abitavamo a Milano e mia madre per sfuggire ai bombardamenti mi portò a nascere nel paese del nonno, a Torre Pallavicina, nella bergamasca».

La pallacanestro è stata una folgorazione.

«Da bambino ero diventato un divoratore di libri per ragazzi: Salgari, Verne, Jack London... Non volevo uscire più a giocare con gli altri. Fu mia madre, donna di buon senso, a prendermi con la sua energia e a portarmi in parrocchia. Eravamo tornati a Milano e allora gli oratori erano una realtà molto ben organizzata: scoprii un mondo e soprattutto il campo di basket. Rimasi incantato da questa disciplina in cui prima si pensa e poi si agisce. E ha un grande valore educativo: in campo bisogna distribuirsi la responsabilità. Quando la palla arriva a un ragazzino timido che non vorrebbe prendere l’iniziativa deve farlo per forza perché i suoi compagni si aspettano che lui faccia un tiro. E viceversa se arriva a uno un po’ egoista che vuol fare tutto da solo se è marcato non può tirare deve cercare per forza il compagno libero».

Dietro i suoi schemi c’è anche la fede.

«Merito dei miei genitori. Sono cresciuto nell’Azione Cattolica e oltre all’aggregazione ho scoperto la bellezza di meditare sulle grandi domande della vita. La fede è essenziale anche nello sport: dà senso a tutto, anche ai sacrifici, e ti rende forte quando tutto sembra crollarti addosso. Le parabole del Vangelo poi sembrano fatte apposta per i discorsi pre-partita degli allenatori: quante volte mi è capitato di dire a un giocatore “non sprecare il tuo talento”, o di riaccogliere da “figliol prodigo” chi capiva di aver sbagliato. E quando qualcuno si montava la testa gli ricordavo il discorso della Montagna per farlo rimanere umile».

Con Dan Peterson, suo amico e “rivale” di un tempo, avete rivoluzionato la figura del coach.

«Siamo diversi, ma alla fine ci ritroviamo sulla gestione del gruppo. Ancora ridiamo pensando a quando traducevo gli articoli dei giornali statunitensi e mi fingevo corrispondente dagli Usa sulla rivista “I giganti del basket” con lo pseudonimo “Wally White” per far conoscere anche in Italia la pallacanestro americana. Ma oggi l’Nba non mi piace, c’è troppo divismo e culto dei singoli super atleti. Il vero basket è rimasto quello di “squadra” praticato nei college dove peraltro è nato questo sport nel 1891».

Ha vinto tanto, ma a quale successo è più legato?

«Io preferisco ricordare che ho fatto sei finali scudetto e ne ho perse tre perché come dice Kipling nella poesia If: “Sarai un uomo se imparerai a trattare la vittoria e la sconfitta allo stesso modo come due uguali impostori”. Il problema nel mondo dello sport è che tutti vogliono solo vincere, ma se vincere è l’unico obiettivo allora vale la pena di corrompere gli arbitri o doparsi. La vittoria è la conseguenza dell’eccellenza dell’allenamento quotidiano: se lavori bene poi puoi anche perdere tre finali, la quarta la vinci».

Chi è stato il suo giocatore-modello?

«Larry Wright. Per la grande motivazione che aveva dentro e per la capacità di condividere le sue doti. Perché per essere un campione non basta il talento o la fisicità. Lui veniva da una cittadina della Louisiana dove c’erano ancora le fontanelle per i bianchi e per i neri. E i ragazzi di colore avevano due possibilità di riscatto: o la musica o lo sport».

Si ritrova nel basket italiano di oggi?

«No, è molto diverso da quello che praticavamo noi soltanto dieci anni fa. Oggi le società non curano più i vivai, non vanno più nelle scuole a cercare i talenti e col libero mercato prendono il primo straniero perché costa meno. La mia soluzione è quella di prevedere oltre alla Serie A, un mondo dilettantistico in due tronconi. Uno ludicoamatoriale diviso in piccole leghe; l’altro formativo: i nostri ragazzi quando finiscono le giovanili vengono sbattuti nelle serie minori dove non trovano spazio perché ci sono i “respinti” della Serie A. Mentre in America dopo l’High school ci sono quattro anni di college in cui il giocatore si forma e se non è ancora pronto per la Nba c’è la Lega di sviluppo. Mentre da noi, diciamo la verità, la scuola non sa nemmeno cosa sia lo sport. Poi in Serie A diamo pure la libertà ai club di scegliere chiunque, le quote fisse di stranieri servono a poco. Ma se le società hanno cultura sportiva sanno che ci vuole un nucleo di italiani e che non serve cambiare giocatori ogni anno o allenatori ogni tre mesi».

Le è piaciuta la Nazionale agli Europei?

«Messina ha fatto il massimo, se non altro è riuscito a farci giocare di squadra. E non come prima che vivevamo nell’equivoco dei nostri italiani in Nba. Il problema è che l’ultima generazione di giocatori italiani di alto livello è quella che con Recalcati ha vinto l’argento alle Olimpiadi di Atene 2004. Ma già lì Recalcati con la medaglia al collo disse: “Attenzione sono finiti i giocatori buoni, non li stiamo più producendo”. Ma i vertici federali pensano a tutto tranne che allo sviluppo del nostro basket».

Milano non sembra avere rivali per lo scudetto.

«Se non lo vincono quest’anno... Hanno fatto un’ottima squadra e diano tempo a Pianigiani che è molto bravo. Vedo bene anche Venezia e Avellino. Purtroppo oggi come nel calcio, dietro allenatori e giocatori ci sono gli agenti che hanno interesse a farli cambiare spesso club: per loro i veri clienti non sono i giocatori ma i presidenti. Ma così non c’è tempo per far crescere una squadra».

La chiamano il “filosofo” del basket.

«Esagerato, tutti lo siamo quando ci poniamo delle domande. Piuttosto dal fatto che erano sarti mio nonno e mia mamma e mio padre vendeva i tessuti, dico che l’allenatore deve essere un grande sarto con il suo stile. Deve essere fedele alla sua visione di gioco anche quando le cose vanno male e tutti ti attaccano dicendo “guarda gli altri tecnici”. La tentazione di rinunciare a quello che tu credi è forte ma devi resistere. Perché sei un grande sarto quando riesci ad avere un tuo stile. E sai vestire uomini di taglia e cultura diversa mantenendo il tuo stile ma su abiti che vanno bene a loro».

Il suo tiro da 3 più bello però l’ha visto realizzarsi fuori dal campo.

«Sì, quando ho conosciuto mia moglie. Prima pretendevo troppo dalla squadra e mantenevo la distanza. Invece lei col suo carattere estroverso mi ha condotto per mano anche nelle relazioni umane con i giocatori. Mi ha fatto vincere tanto e ha dato alla luce i miei tre figli: quando è nato il mio primogenito Tommaso è stato senz’altro il giorno più bello della mia vita».

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