
Gianmarco Pozzecco, ct della Nazionale italiana di basket - Ansa
«Lo sportivo di solito si distingue in due categorie: c’è chi fa il Peter Pan per tanto tempo e chi magari a 19 anni ha già tre figli... Io ho fatto parte a lungo della prima categoria…». Qualcosa è cambiato nella vita di uno dei volti più iconici del nostro basket. Ma prima da giocatore, oggi da allenatore, Gianmarco Pozzecco si porta dietro l’etichetta del genio ribelle della pallacanestro italiana. Chi però mal sopporta la sua focosità è rimasto probabilmente legato all’immagine del guascone e delle bravate in campo e fuori, dei capelli fucsia o delle esultanze esagerate… Di sicuro però ciò che è rimasta immutata è la schiettezza di un uomo che vive tutto con una passione «folle» ma sincera. È questo in fondo il segreto del ragazzino nato a Gorizia e cresciuto a Trieste che con i suoi 180 centimetri è riuscito a primeggiare tra i giganti diventando uno dei playmaker più estrosi della storia tricolore. Oggi Pozzecco a 52 anni è il ct della Nazionale, incarico che ricopre dal 2 giugno del 2022. Sotto la sua guida gli azzurri hanno raggiunto i quarti a Euro 2022 (battendo la Serbia di Jokic agli ottavi) e i quarti al Mondiale 2023 (per la prima volta dal 1998), l’anno scorso invece hanno fallito la qualificazione ai Giochi di Parigi. Ora però la testa è già al Campionato europeo che si terrà dal 27 agosto al 14 settembre tra Lettonia, Polonia, Finlandia e Cipro.
L’ultimo grande successo dell’Italia del basket è datato 2004, l’argento olimpico di Atene, lei era in campo… Qual è il fattore principale di questo lungo digiuno?
«Mi sembra chiaro, ci sono troppi stranieri nel campionato italiano. I giocatori per la Nazionale sono sempre meno, di conseguenza anche la qualità ne risente. Ma non mi lamento, ciò che mi dispiace è che i ragazzi italiani oggi hanno poche speranze di giocare in Serie A».
Dove possiamo arrivare all’Europeo?
«Sarà più duro del Mondiale perché gli avversari sono tutti forti. Noi siamo una buona squadra ma dobbiamo lavorare sul gruppo. Non sono contento del preolimpico, abbiamo avuto poco tempo per allenarci e anche io sono stato diverso dal solito…».
È sembrato più tranquillo in panchina…
«Sì, anche troppo. Mi hanno fatto notare che è mancata la mia “follia”… All’inizio non capivo. Ma come? Mi viene sempre rimproverato di fare il pazzo… “I tuoi giocatori hanno bisogno della tua follia per accendersi” mi hanno detto. Ci ho riflettuto e sono d’accordo».
Dobbiamo aspettarci allora un ritorno folle...
«Sì anche se mi sono calmato un po’ da quando nella mia vita c’è Tanya, ragazza spagnola che quattro anni fa è diventata mia moglie. È stata lei a darmi la maturità per allenare. Anche se ci sono stati ancora momenti di follia in panchina…Poi due anni fa è arrivata mia figlia, Gala, ed è stato un altro enorme cambiamento...».
In che cosa è cambiato?
«Sento la responsabilità di padre verso un altro essere umano. Sono cambiate le priorità, faccio una vita talmente più tranquilla che mi sono tranquillizzato. Mia moglie è una mamma straordinaria. Ma io passo un sacco di tempo con mia figlia. Mi diverto, rido, scherzo. Poi ora parla e la sento parlare: è bellissimo. Sì, sono maturato, anche se riconosco di avere un’età cerebrale che non corrisponde alla mia... I bambini pensano subito che abbia la stessa età loro…».
Si sente adesso anche un po’ papà dei suoi giocatori?
«Certo, ci sono valori comuni nella crescita di un figlio e di una squadra come l’amore o la fiducia. E poi non voglio apparire presuntuoso, ma penso di essere stato il capostipite di un approccio diverso come allenatore. Quando per esempio giocavo io, il coach non abbracciava mai i giocatori prima di una partita. Oggi vedo che lo fanno tanti allenatori…».
Spesso l’hanno accusata di essere troppo plateale, dandole anche del clown…
«Non mi faccio condizionare da quello che dicono di me. Ho un buon rapporto con i giocatori ma questo non significa che con me ognuno si sente autorizzato a fare qualsiasi “cavolata”. Sono più rigido di quanto si possa pensare. E pretendo tolleranza tra compagni di squadra. Ci sarà sempre qualcuno che sbaglia. Se un compagno non è tollerante impazzisco. Non lo faccio nemmeno io perché non dovrebbero esserci allenatori che insultano un giocatore».
C’è qualcosa che da coach non rifarebbe più?
«Sì la storia delle bestemmie a Sassari… È l’unica volta in cui mi sono pentito e ho chiesto scusa. La bestemmia purtroppo è diventato un intercalare becero. Ma non mi è mai piaciuta. Sono contento però perché da quando alleno la Nazionale - e sono passati tre anni - non è più successo. Mia mamma poi è credente ed è una cosa che ha sempre odiato».
Che rapporto ha con la spiritualità?
«Vorrei essere molto di più spirituale. Lo sono molto poco, perché sono estremamente istintivo. Però sto migliorando. Penso che mi farebbe veramente bene. Da piccolini andavamo sempre a Messa… ora è qualcosa che si è perso. Faceva parte dell’essere famiglia, celebrare le feste tutti insieme… Oggi il mondo sta andando in una direzione un po’ troppo egoistica e individualista».
Quali valori le ha trasmesso la sua famiglia?
«Mio padre anche adesso che ha quasi 80 anni è sempre stato una persona sincera. Il fatto di essere trasparente è una virtù a cui tengo molto anche quando dire la verità è complicato».
Un giorno indirizzerà sua figlia verso il basket?
«No. Spero faccia uno sport di squadra ma non pallacanestro perché non voglio che viva quello che sono stato io. Poi per me è indispensabile nella crescita dei figli non avere pretese. L’unica cosa che mi piacerebbe trasmetterle è che faccia delle attività sociali e sappia stare in mezzo alla gente».
Oggi nei campionati giovanili, anche nel basket, ci sono episodi di cronaca che sfociano persino nel razzismo.
«Viviamo in una società malata di egoismo, dove per i genitori i figli devono diventare campioni. Mio padre aveva la Renault 4, una macchina orrenda… Poi con lui ex giocatore e allenatore di basket, alto 2 metri e pesante 140 kg, l’auto in salita arrancava. Arrivavo sempre ultimo alle partite… Non mi sono mai vergognato di arrivare con questa macchina. Oggi è impensabile non esistono più auto brutte. Vogliamo essere tutti di status elevato se no non siamo contenti».
Che cosa pensa dei social?
«Non li sopporto. Mio nonno lavorava in ferriera a Trieste quando è andato in pensione il suo orgoglio era non aver mancato un giorno di lavoro… Una volta le persone anziane erano orgogliose di essere considerate brave persone. Oggi quello che è considerato “figo” è quello che c’ha i soldi o ha i followers… Come sportivi dovremmo dare ai giovani un segnale diverso».
Quale?
«Smetterla anche nella pallacanestro di ambire solo al successo: non è la cosa più importante. Nello sport ci sono tanti valori, come lo stare bene insieme. Io ho giocato sempre e solo per divertirmi. All’inizio mi davano 50 mila lire ed ero super felice, mettevo benzina nel motorino. Il problema sa qual è? Che ancora adesso come allenatore tutti mi vedono come uno che si diverte, che impazzisce, che vive le emozioni… È il mio grande “dramma”. Ma io mi reputo la persona più fortunata del mondo perché mi sono sempre divertito».