martedì 16 febbraio 2021
Era l’estate del 2000 quando l’allora giovane cronista di Radio24, Alessandro Milan, portò più volte in trasmissione la voce del detenuto italoamericano, la denuncia della sua condizione inumana
Derek Rocco Barnabei, il giovane italoamericano, classe 1967, nonni originari di Siena, la cui condanna a morte venne eseguita in Virginia (Stati Uniti) il 14 settembre 2000

Derek Rocco Barnabei, il giovane italoamericano, classe 1967, nonni originari di Siena, la cui condanna a morte venne eseguita in Virginia (Stati Uniti) il 14 settembre 2000 - Ansa / Pal / via sienanews.it

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«Vi chiedo di continuare a lottare per me. Questo è il mio testamento spirituale e un piccolo gesto di ringraziamento per ciò che avete fatto. Vi voglio bene, davvero. E continuate a pregare per me. Mi spiace molto, ma devo andare prima che mi trascinino via». Primo pomeriggio del 7 settembre 2000. Dalle frequenze di Radio24, le parole del trentatreenne risuonano forte in Italia. Non è la prima volta. Il dialogo a distanza tra l’emittente e questo giovane di Norfolk, in Virginia, va avanti da tre mesi.

Quel giorno, però, è il momento delle battute finali. That time is now, il tempo è scaduto, come afferma la fredda burocrazia carceraria. Da quel saluto, Derek Rocco Barnabei è un dead man walking, un uomo morto che cammina. Verso l’iniezione letale. L’esecuzione è fissata sette giorni e qualche ora dopo.

Nel frattempo, il condannato è sottoposto al death watch: trasferito nel carcere dove si trova la camera della morte, è confinato in isolamento e controllato ventiquattro ore su ventiquattro. Fino a quando non sarà consegnato nelle mani del boia che, negli Stati Uniti del Ventunesimo secolo, ha le sembianze asettiche di un lettino da ambulatorio. Là, alle 21.04 del 14 settembre 2000, una dose di cloruro di potassio gli avrebbe arrestato il cuore. Già prima della vita, però, lo Stato ha spento la voce di Barnabei, capace di risuonare da una sponda all’altra dell’Atlantico.

A costruire l’inedito ponte, un giovanissimo e neo-assunto assistente ai programmi dell’allora direttore Giancarlo Santalmassi su Radio24: Alessandro Milan. È lui a mandare in onda, nell’estate del 2000, per la prima volta nel nostro Paese, una serie di interviste con un detenuto nel braccio della morte. Barnabei appunto, condannato, il 12 giugno 1995, dopo un’inchiesta piena di incongruenze, per lo stupro e l’omicidio della fidanzata, Sarah Wisnosky, avvenuto due anni prima, quando la vittima aveva 17 anni.

Un delitto atroce per cui Barnabei ha proclamato, fino all’ultimo, la propria innocenza. E lo stesso ha fatto sua madre, Jane, che, nell’intento disperato di salvare il figlio si è rivolta all’Italia, nazione d’origine del defunto marito, come rivela il cognome. Là si è imbattuta in un caparbio assistente ai programmi: da quell’incontro sarebbe nata un’esperienza radiofonica inedita e un’avventura umana profonda.

Ancora adesso, Alessandro Milan fatica a riconoscersi un pioniere: si limita a dire di aver scoperto che la Virginia consentiva telefonate ai condannati alla pena capitale. «Basta chiedere l’autorizzazione e sperare. La risposta è arrivata a stretto giro. Mi hanno dato un numero da chiamare e hanno aggiunto 'chieda pure di Barnabei'. Ho avuto poco tempo per prepararmi a un’intervista così delicata», rievoca l’ormai affermato giornalista e conduttore di Radio24 in Un giorno lo dirò al mondo che oggi esce per Mondadori.


«Ripeteva spesso: "Un giorno uscirò e dirò al mondo che vergogna è la pena capitale".
Non ha potuto farlo, ma 20 anni dopo la Virginia l’ha abolita»

Un racconto autentico e appassionato dei mesi in cui l’autore ha accompagnato Barnabei fino all’esecuzione. Quel 14 settembre Alessandro Milan era fuori dal Greensville Correctional Center accanto a Jane e all’altro figlio, Craig. Insieme a loro ha, atteso la consumazione 'dell’omicidio giudiziario', come le autorità scrivono nei certificati di morte dei condannati. E ha visto il feretro lasciare la prigione.

Né la raffica di ricorsi della difesa né le suppliche accorate dei familiari né l’impegno degli attivisti né i due appelli di papa Wojtyla né le maratone di Radio24 erano riusciti a fermare l’esecuzione numero 666. Tutto era risultato vano. «A un certo punto, durante quell’intensa estate, avevo quasi creduto che Barnabei si sarebbe salvato. Appena atterrato in Virginia, però, ho capito che era stata un’illusione: a nessuno importava della sua morte», racconta Milan.

Il giornalista ci ha messo oltre vent’anni per riuscire scrivere una storia che gli si era aggrovigliata dentro. «Barnabei mi ha cambiato. Sono sempre stato contrario alla pena di morte. Prima, però, la consideravo una questione astratta. Parlando con Derek ho compreso fino in fondo quanto sia brutale e ingiustificata: non c’è una sola buona ragione per applicarla».

Era proprio questo che Barnabei avrebbe voluto gridare alla società se mai fosse riuscito a lasciare il braccio della morte. «Ripeteva spesso: 'Un giorno uscirò e dirò al mondo che vergogna è la pena capitale'. Da qui il titolo del libro. Purtroppo non ha potuto farlo. Ma aveva regalato a me la sua storia perché la verità non morisse con lui. Finalmente sono riuscito a raccontarla», afferma Milan.




In un libro Alessandro Milan oggi racconta quella storia
di resistenza civile contro la “morte di Stato”

Il suo non è, però, un pamphlet volto a scagionare Barnabei. «A lungo mi sono chiesto se fosse innocente o no. Poi ho capito che non era la domanda giusta. La pena capitale è comunque sbagliata, qualunque crimine uno abbia commesso. È solo una 'vendetta di Stato' contro cui dobbiamo combattere una battaglia di civiltà. Ci vorrà tempo, ma la vinceremo».

Un segnale di speranza in tale direzione arriva proprio dalla Virginia. L’uscita del libro coincide proprio con l’abolizione della pena capitale nel primo Stato del Sud degli States. Nonché quello che per primo l’ha introdotta, nel 1608, e che più condannati ha messo a morte: 1.400. Camera e Senato locali si sono espressi a favore dell’eliminazione. Ora manca solo la scontata promulgazione da parte del governatore abolizionista Ralph Northam. Poi la macchina della morte si fermerà. Definitivamente. Almeno in Virginia.

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